Punta Gnifetti 4554m
Una cresta dal sapore himalayano nelle Alpi.
Andar per creste di alta quota svelate dai nostri impareggiabili bisnonni, verso la fine del diciannovesimo secolo, penso sia una attività sublime. Sicuramente è l’Alpinismo che più amo, che più sento vicino al mio canone estetico di andare per montagne. Certe salite vanno gustate e pregustate con i tuoi compagni di scalata, con mesi di anticipo e questa è stata una di quelle. Dopo l’ebbrezza della Biancograt, già dopo pochi giorni, la mente era alla ricerca di un’altra salita di ampio respiro, a cavallo del vuoto ed immersi nel cielo.
Forti e rassicurati dalla esperienza formativa che è stata quella magnifica cresta sul Bernina, spingiamo l’asticella ancora un po’ più su. Marco si lascia convincere senza difficoltà, troviamo piena comunione di intenti e so che la diatriba sarà solo eventualmente nell’approccio e logistica, ma anche in quello ci troviamo subito d’accordo.
Quattro giorni sembrano il periodo minimo per affrontare la salita con acclimatamento e senza “strappi al motore”, l’appetito vien mangiando e dopo la cresta Signal stiamo sognando di dormire al rifugio Margherita ed il giorno seguente affrontare pure la salita della Dufour per la normale. I dislivelli paiono già sulla carta importanti ma la bonarietà del versante occidentale e una sovrastima delle nostre capacità, ci portano a pensare come un obbiettivo alla portata di mano, anzi un peccato non realizzare l’en plein di 3 quattromila di cui due nuovi per noi.
In un caldo pomeriggio di luglio l’auto è stivata, i nostri zaini abbassano le sospensioni ed immaginarli sulle spalle per tutte quelle ore, dimezza già il fiato. Il primo giorno pernotteremo al B&B 10 e lode che per 30€ a testa ci permetterà un certo lusso prima dei bivacchi previsti. La struttura è ricavata in una ex scuola elementare, qua e là qualche tavolo, lavagna e libro. Marco si sente a suo agio, quasi al lavoro direi, come un insegnate senza allievi che frequenta la scuola in periodo estivo. Anche io ne conservo un ottimo ricordo e non possiamo che consigliarlo.
L’indomani si parcheggia ad Alagna Valsesia e qui lo spettacolo si apre in tutta la sua potenza. Le tipiche costruzioni Walser e la serenità della cittadina poco hanno da spartire con la visione del versante E del Monte Rosa, che è qualcosa di impressionante. Vera cattedrale di ghiaccio oppone allo sguardo una barriera che nelle dimensioni ricorda più un Himalaya che non le Alpi. Le pendenze non sono quelle del Bianco, mancano le guglie ed i pinnacoli granitici appuntiti e la struggente complessità del gigante ma qui siamo di fronte a quasi 3000m di parete che dai verdi prati erodono a rosso gneiss fino a lucente ghiaccio che buca le nubi.
La parete è immensa, le distanze pure, ma le pendenze non sembrano schiacciare chi vi si avventura. Iniziamo a camminare. Subito le cascate dell’Acqua Bianca rinfrescano la calda giornata, decidiamo di darci un limite massimo di ascesa: mai più di 300m/h pena esaurire le energie su quei 2200m che ci aspettano fino alla capanna Resegotti. Malgrado lo zaino prossimo ai venti chili e le imposizioni mentali sarà difficile mantenere quel lento passo, 7 ore di avvicinamento sembrano troppe ma non appena superiamo il rifugio Barba Ferriero capiamo siamo stati lungimiranti. Le tracce spariscono, il sentiero accennato perde visibilità, alcune nubi basse ci fanno abbandonare più volte la retta via. Leggiamo la cartina ripetutamente e cerchiamo di emulare ora, su questi pianori rocciosi, la traccia studiata meticolosamente a casa ormai da settimane. Intravediamo la cresta e le propaggini seraccate del ghiacciaio che scende dalla punta Gnifetti, ma di bivacco Resegotti neanche l’ombra. Prendiamo quota lentamente e confideremo che quando l’altimetro segnerà solo un centinaia di metri alla capanna, questa ci apparirà in tutta la sua accoglienza. Ormai sul ghiacciaio delle Locce la neve bagnata e pesante di un caldo luglio lambisce i nostri scarponi. Decidiamo di non indossare i ramponi solo perché sappiamo che le ultime difficoltà saranno un breve tratto ferrato su roccette. Eccolo, come miraggio nel deserto appare una costruzione nera, simile ad un nido d’aquila si staglia nel cielo, appoggiato sulla cresta, magnifico ma improbabile nella sua statica posizione.
Intravediamo anche il luccichio delle maglie metalliche e degli spit che con movimento ascendente verso destra segnano la direzione di salita fino al nostro ricovero notturno. Sono passate 7 ore da quando abbiamo indossato gli zaini ed ora il loro peso pare moltiplicato sulle nostre spalle. L’ultimo tratto ripido è la cosiddetta prova di forza, siamo già esausti ma intuiamo che quello sarà il punto di non ritorno. Se arriviamo al bivacco il ricordo vivo dello sforzo necessario per raggiungerlo ci motiverà per la salita dell’indomani.
Tiriamo fuori la corda, una piccola crepaccia terminale si oppone tra noi e l’inizio del tratto metallico. Gli imbraghi sono sul fondo dello zaino, o forse sono sopra, ma nessuno dei due ha la forza e coraggio per toglierselo. Decidiamo in una sicura a spalla e ci assicuriamo alla corda con un improvvisato imbrago di corda, quanto fosse corretto per fortuna non l’abbiamo mai testato. Con un po’ di peripezie, date più dallo zaino che pareva attirato magneticamente dalla voragine, che altro, afferro la catena e mi tiro di forza ormai privo di ogni stile. Recuperato Marco mi lascio superare sulle roccette, ho decisamente esaurito ogni energia ed anche i pochi metri che ci separano dal riparo paiono non finire mai, Marco mi incoraggia e proseguo. Entrati nella capanna ci accorgiamo non siamo i soli, una guida con cliente siedono e dividono il tavolo con due giovani ragazzi marchigiani. Poco dietro di noi salivano altri due alpinisti e così pochi minuti dopo si riapre la porta ed in men che non si dica, siamo già in otto a sciogliere neve, tagliare pane, formaggio e scambiarci the caldo e racconti.
L’atmosfera è calda e rilassata, le parole girano insieme alle frugali vivande che vengono subito condivise e presto le energie sembrano rimpadronirsi dei nostri corpi. Si fa acqua velocemente con legna sotto la capiente pentola in dotazione alla capanna che, ora, ci appare come il miglior posto in cui potevamo approdare. Tra malati della stessa passione occorre poco per far combutta e prima che volga il tramonto siamo tutti affiatati come amici di vecchia conoscenza, strano come i luoghi stretti e l’isolamento possano catalizzare le persone e farle sentire simili anche se così diverse.
Nell’attesa del risotto leggiamo il libro delle ascensioni al bivacco, pochi giorni prima Christophe Profit era salito con cliente e la sua firma stacca in me un senso di orgoglio ma anche di timore, per quello che il giorno dopo ci riserberà.
L’indomani la sveglia suona troppo presto, alle 3.00 la spegniamo svogliatamente e ci scambiamo le impressioni della notte. Io ho dormito poco ma ancora meno Marco che pare anche accusare un senso di nausea. Il morale è basso. Lasciamo andare avanti le altre cordate, sicuramente più veloci, per non avere dietro le spalle il respiro e l’assillo di decisioni e passi non nostri. Ci consultiamo ancora, gli sguardi di una cordata affiatata in certe occasioni, parlano più di cento parole ed in quella era chiaro che non siamo scesi solo perché tutti e due sapevamo che l’occasione era unica, che nessuno dei due era disposto a ripetere quei 2200 infiniti metri di salita.
La luce della frontale illumina le moffole fuori dalla porta del bivacco. Siamo usciti ed il primo, duro passo è stato fatto. Sentiamo il sibilo dell’ora più fredda della giornata che scende dalla grossa spalla nevosa che ripara l’esile costruzione. Subito di leghiamo in cordata, stiamo in conserva corta a non più di dieci metri ma non appena i ramponi mordono la ghiacciata cresta orizzontale, veniamo investiti da raffiche che destabilizzano la postura, quindi dimezziamo i metri che ci separano. Il terreno pare perfetto, le punte mordono e scommetto emettevano quel classico e rassicurante suono tipico della neve ghiacciata trasformata, suono che nessuno di noi udì perché sormontato dal sibilo del vento che non ci abbandonerà più per tutta la salita. Vere e proprie mitragliate d’aria che ci obbligano più di una volta a metterci carponi nell’intento di caricare gli attrezzi con tutto il nostro peso, per non farci prendere il volo. Giunti al colle Signal capiamo che la salita già impegnativa di suo, sarà resa ancora più ingaggiosa dalla precarietà del nostro equilibrio, messo a dura prova dal vuoto della cresta e contemporaneamente dalla pienezza di colonne d’aria che ci investono senza preavviso. Cerchiamo di salire, consci che non appena la pendenza aumenterà dovremo abbracciare il versante sud-est e quindi saremo più riparati da questa gelida Tramontana.
Mi metto in testa nella speranza che tutti quei mesi di studio dell’itinerario ci aiutino nel districarsi da questa immensa e complessa muraglia, che ora appare in tutta la sua potenza. Affiora dalla neve una costola rocciosa di rosso gneiss, tirandola mi accorgo che segue la mia mano. D’istinto la afferro ed anziché arrestare il suo moto cerco un improbabile disgaggio nei pochi metri che ci separano. L’errore fu fatale per la nostra corda, la caduta di taglio anche se sulla neve ne causa il tranciamento netto di tutti i trefoli tranne uno, che rimane bianco e solitario nel collegare me e Marco.
Lo sconforto è grande ed il troppo freddo ci obbliga a rapide decisioni. Allora non avevo il coltello a portata di imbrago e penso una roccia sia stata usata come accetta per completare il lavoro. Lo spezzone se lo carica Marco nel già pesante zaino, con l’altro decidiamo di proseguire, non ne misuriamo la lunghezza ma a sensazione dovrebbe essere circa la metà, in caso di doppie non dovremmo avere problemi per la progressione … speriamo. Queste rapide decisioni prese senza dibattiti ci fanno intuire che tutti e due sappiamo di aver passato il nostro nuovo “punto di non ritorno”, ora appare più semplice salire che scendere o perlomeno più rapido. La sintonia di intenti ormai raggiunta porta la cordata a scelte rapide ed istintive e soprattutto condivise. Mentre ascendiamo mi rendo sempre più conto di quanto sia importante questo fattore e di quanto la nostra cordata sia cresciuta da quando ci eravamo trovati legati insieme, senza programmarlo, sulla cresta del Cervino.
Qui le difficoltà sono nettamente superiori, il senso di isolamento è interrotto solo a sprazzi dalla visione della capanna Margherita e dei nostri compagni di bivacco, ormai alti e veloci con un passo che non è decisamente il nostro.
Su questa cresta nulla è scontato, neppure seguire la cresta, anzi l’impegno principale diviene proprio l’intuito alpinistico da affinare ad ogni passo: alla ricerca del passaggio migliore, della minore difficoltà o della roccia più sana. Spesse volte si deve abbandonare il filo preferendo il versante SE e subito dopo il NE, alla spasmodica ricerca di orientarsi tra i due “grandi risalti” come li ha battezzati il Buscaini.
L’assicurazione è quasi sempre aleatoria ma psicologicamente importante. Le difficoltà sono sempre controllabili e non portano mai al limite, ma è chiaro che la scivolata di un componente sarebbe difficilmente arrestabile siccome, più che di cresta, spesso si è in piena parete sovente impiastrata di neve. Dove la roccia verticalizza proviamo anche ad assicurarci a tiri ma il metodo funziona per poco. Siamo consci degli errori commessi nelle nostre precedenti traversate, e qui allentiamo la corda e velocizziamo la progressione a conserva lunga e protetta pure male. A casa, col manuale in mano, sarei il primo a condannarla, ma qui, quando sei annegato in un versante di 3000m di roccia e neve, prevale l’istinto di sopravvivenza sul dottorato di tecnica alpinistica. Capisci e percepisci chiaramente che la sicurezza tua e del tuo compagno, è legata al tempo di esposizione in questi ambienti, procedere in modo lezioso e didattico spezzando il giusto ritmo è un elemento di insicurezza.
Come spieghiamo spesso agli allievi occorre fare proprie le tecniche e creare quegli automatismi per cui non occorre più fermarsi e pensare perché lo si faccia, ma farlo: subito, bene e basta. Malgrado spesso mi metto in cattedra, ora sono io l’alunno. Questa cattedrale di ghiaccio esige il rispetto, l’attenzione e le risposte che un professore si merita. Sai che hai studiato per l’interrogazione, ed anche le domande sono tutte alla tua portata ma, il suo svolgimento è snervante. Il tempo pare dilatato e non ne vedi la fine.
Giunti sotto al grande risalto sommitale ne intuiamo la salita, ma con difficoltà superiori a quanto aspettato e con energie ormai al contagocce. Decidiamo quindi di glissarlo sulla sinistra, in piena parete SE. In uno scivolo nevoso dalla pendenza costante sui 50°, ne intravediamo una scappatoia. Qua e là affiorano diverse roccette ormai rese roventi dal sole alto e sembrano ottimi punti di assicurazione intermedia per vincere quel traverso infido, su neve resa marcia dall’energico sole di luglio. Peccato che ogni spuntone si paleserà o inaffidabile o completamente spiovente. I friends e nuts escono senza trovare ostacolo alcuno, i cordini finiscono sulla neve e di batter chiodi per ritrovarsi in mano delle briciole di montagna non pare igienico, in quel punto, a quella quota ed a quell’ora.
C’è da fare una cosa sola, anzi due: salire e non cadere.
Svolgiamo le anse e ci allunghiamo ai capi della corda mozza, qualche decina di metri permette di essere in modo alternato sulle difficoltà.
Quando io tiro il fiato, Marco lo trattiene e viceversa.
Questo pendio si rivelerà la parte più snervante della salita. Ogni passo lo scarpone prima affonda fino al ginocchio, ma quando caricato, pare non trovare appoggio sicuro. Il peso del corpo con lo zaino stivato delle vettovaglie, pentole e gas da bivacco, ora è evidente. La progressione si fa lenta, delicata e poco proficua.
Più che avanzare si annaspa come cani. La piccozza non è di conforto, sprofonda pure lei e non pare a volte tornare alla luce. La necessità aguzza l’ingegno e su due piedi mi invento una “nuova progressione” che consiste nell’affrontare con un pugno sinistro la neve. Le dita distese ed aperte nella moffola ne aumentano la superficie ed usando ora i quattro arti motori riesco ad issarmi su di loro e progredire con una certa continuità, maledettamente lenta ma almeno costante.
Marco fedelmente mi segue, è importante saperlo lì, perché a quel tempo con nessun altro mi sarei sentito altrettanto sicuro. Io dovevo solo procedere, dietro Marco avrebbe fatto tutto nel migliore dei modi e cercato di arrestare una mia caduta, in tutti i modi possibili.
Poter affidare la propria vita ad un compagno di cordata ed a lui giurare lo stesso trattamento, è una delle alchimie magiche dell’Alpinismo, una delle tante per cui vale la pena cimentarsi in questa passione.
Dopo un’ora abbondante su questo terreno vien una gran voglia di ritoccare roccia, per marcia che sia.
E così è quasi un sollievo quando arriviamo al cospetto di una fascia rocciosa rossastra e verticale, la cui salita contraddistingue il meritarsi di nuovo la cresta. Sarà un quarto grado, forse anche meno, ma che fatica ed impegno quei pochi metri con le punte dei ramponi che gracchiano e stridono sul rosso gneiss. In qualche modo, penso molto poco elegante, sono sopra e da qui girandomi per assicurare a spalla Marco mi si apre in tutta la sua bellezza la cresta appena salita ed una goulotte, che a saperlo prima, era forse da preferire.
Non c’è tempo e con corda corta e tirata incito il mio compagno a salire, Marco non si fa pregare.
Ancora pochi metri esposti sul filo ed alle raffiche e si apre la vista del torrione Signalkuppe e dietro si intravede la sagoma della Capanna Margherita, siamo oltre i 4500m e la tensione cala d’un botto e così la fatica esce in modo prepotente, senza preavviso ci sega il fiato.
Sono molte ore che non mangiamo e ci idratiamo, concentrati nello uscire dalle difficoltà, abbiamo ingenuamente pensato di poter salirla tutta senza pause.
Grosso errore.
Gli ultimi metri saranno un calvario, non appena si accelera il passo per giungere alla meta ormai imminente, il respiro viene bloccato da una secca tosse che non lascia scampo. Occorre fermarsi e ripartire, in un continuo intervallarsi che ci fa intuire essere ormai prossimi al fondo del barile.
Prime delle scale della Capanna, abbandoniamo a terra piccozze e corda, osserviamo il vento che ha dilaniato quasi tutto il rosso di una risicata bandiera italiana e sotto quella europea non è messa meglio, avendo perso ben quattro stelle. Riprendiamo su tutto ed entriamo in quello che ora appare come un hotel, ecco dove son finite le quattro stelle!
Ritroviamo gli amici di merenda del bivacco, le facce stanche, cotte dal vento e sole ma soddisfatte. Se loro appaiono così, chissà i nostri volti come saranno, meglio non aver specchi nelle vicinanze.
Al tavolo ci ricompattiamo, Marco si accascia sul piano ed io non lo seguo solo perché è finito lo spazio. I due ragazzi marchigiani parlano già di N dei Lyskamm il giorno seguente, a me arrivare alle funivie pare già un miraggio.
Il pomeriggio scorre tranquillo, ogni piano di scale interne è una piccola cima da raggiungere o discendere e quindi si ottimizzano i giri, saltandone anche alcuno senza patemi di sorta o rimpianti. E’ così che non mi ricordo neppure se prima della cena siamo andati in camerata od ai servizi. Poco importa.
Siamo qui, il tramonto sta esplodendo e la visione del Cervino e Lyskamm dai piccoli vetri che vibrano al vento, è una immagine che mi porterò dentro a vita.
La notte scorre travagliata, la quota batte sulle tempie e la sensazione è quella di essere in piena influenza invernale. Le energie non vengono recuperate, le dita dei piedi rimangono fredde, pure un’unghia pare aver virato di colore. Altro che Dufour, l’indomani sarà già un successo tornare a valle sulle proprie gambe.
Di comune accordo ci dichiariamo completamente soddisfatti, con ammirazione ma senza invidia lasciamo partire i giovani ragazzi marchigiani, che in una settimana han racimolato su il bottino di tre anni di un comune alpinista come il sottoscritto: Kuffner al Bianco, Signal e N del Lyskamm. Chapeau.
Scendiamo sui pianori ghiacciati della normale alla punta Gnifetti, che ora ci appaiono come una comoda e sicura autostrada verso le funivie. In breve al perdere della quota ci sentiamo subito meglio, eravamo decisamente in pieno AMS o mal di montagna che dir si voglia, e quindi presto il passo si fa più deciso e svelto ed in breve tempo arriviamo alla capanna Gnifetti, giusto in tempo per notare le ultime cordate svogliate e ritardatarie che partono, in modo raffazzonato verso il nostro ricovero notturno, appena lasciato.
A quel tempo la funivia era solo da passo dei Salati e quindi la risalita allo Stolemberg donava agli alpinisti l’ultimo strappo finale noioso ma spossante.
Tornati ad Alagna i piedi si scaldano sull’asfalto, l’unghia scura è in buona compagnia di altre, la corda mozza ha fatto il suo dovere e le braccia mie e di Marco si cercano per scambiarsi un segno di riconoscenza della magnifica esperienza insieme.
Lo sguardo sale appena oltre il campanile cittadino, ed ora sappiamo bene perché ci dicevano che: