4810m, via normale francese
Summary
dall’Aiguille du Goûter Saint Gervais les Bains – Atla Savoia (FR)
PRIMA DELLA PARTENZA.
E’ come pensare a un autore smisurato, Proust oppure a una cattedrale: una presenza immensa di fronte alla quale l’individuo di passaggio scompare, e solo più tardi, con fatica, sarà in grado di recuperare il volume irrisorio che gli è stato assegnato. Il Monte Bianco è anche questo.
Può accadere che si mostri molto docile, com’è successo quando è venuto anche il nostro momento di metterci alla prova inerpicandoci sulla sua enorme struttura di granito e ghiaccio. Allora è come un essere gigantesco marrone e bianco accovacciato sulla superficie della terra, che per qualche momento si mostri benevolo con le piccole figure lente e nere che si spostano sui suoi vasti fianchi per raggiungere passo dopo passo la vetta conficcata nel cielo; ma, lo sappiamo bene, sempre pronto a scrollarsele di dosso quando, stanco di loro o per capriccio, scatena improvvisamente venti impetuosi o violente bufere.
L’ASCESA.
Primo giorno
La via normale francese. La più facile: per chi ha l’intenzione di raggiungere il luogo più alto d’Europa, percorrerla significa garantirsi qualche possibilità in più di farcela. E’ risaputo comunque che il Monte Bianco, all’interno della sua vastità, nasconde percorsi assai più stupefacenti per la bellezza straordinaria che assumono le forme della roccia e del ghiaccio.
Da St. Gervais si sale su un piccolo treno a cremagliera che termina il suo viaggio al Nid d’Aigle (2372 m), accanto a una lunga colata di ghiaccio e morene simile a lava solidificata, che fino a non molto tempo fa doveva scivolare a quote assai più basse. Qui si prende il sentiero che porta al rifugio Tête Rousse, percorso da stambecchi che salgono e scendono indifferenti al passaggio accanto a loro degli uomini piegati sotto gli enormi zaini e le matasse di corde. Il Tête Rousse (3167 m) sorge accanto a un largo rigonfiamento di ghiaccio, una specie di onda bloccata nella sua spinta verso l’alto che, almeno fino a sera quando il gelo non immobilizza ogni cosa, è attraversata da rivoli impetuosi che costituiscono da lì in poi la sola fonte di acqua corrente (va ricordato che da quelle parti per una bottiglia si pagano 4,5 euro). Alla destra del rifugio, al di là di un enorme baratro coperto da una distesa di ghiaccio devastato da profondi crepacci, la vista è chiusa dalla parete vertiginosa dell’Aig. De Bionnassey.
Ad una valutazione successiva, il Tête Rousse risulta meno confortevole, per gli ambienti bui e angusti e per la scarsezza conventuale dei pasti offerti, dell’assai più famigerato Goûter (il più alto rifugio custodito di Francia), che spunta perpendicolare 700 m al di sopra del primo. Nel frattempo, lunghe scariche di ghiaccio e terriccio dal Gl. De Bionnassey e di enormi pietre rotolanti (rolling stones) che precipitano impazzite come in un bowling verticale dall’alto del Grand Couloir (soprannominato “la roulette russa” essendone inevitabile il temuto passaggio per poter salire verso la cima), formano uno spettacolo replicato a brevi distanze di tempo, al punto che per la sua frequenza cessa di sorprendere dopo non molto gli alpinisti che si radunano nei dintorni del Tête Rousse.
Secondo giorno
Per raggiungere il rifugio Goûter (3863 m) si deve compiere, come paventato, un veloce e guardingo attraversamento trasversale di 70 m del Grand Couloir, sempre instabile e pronto a rovesciare su chiunque tonnellate di detriti e massi. A questo passaggio segue un’arrampicata, con tratti di II grado, della roccia ora completamente scoperta per il gran caldo che costituisce il contrafforte ovest dell’Aig. du Goûter, terminata la quale si approda ai piedi di un immenso paesaggio di ghiaccio che si eleva fino a raggiungere i 4807 m di quota. E’ su questo granito, sul quale appoggia il rifugio Goûter proprio nel punto in cui la roccia si trasforma improvvisamente in uno spessore bianco, che si comincia a sperimentare l’odore che a quota 3500 circa diviene caratteristico di questi luoghi: intendo dire l’odore del piscio e degli escrementi spalmati in ogni nicchia o sporgenza, e fermentati a dovere sotto il sole implacabile. Ovunque. Proprio per questa ragione capita non di rado di non sapere dove appoggiare le mani per far leva durante l’arrampicata. Questa curiosa singolarità dell’ambiente si accentua com’è naturale in prossimità del Goûter; ma anche oltre, poco più in alto, presso una sella di ghiaccio punteggiata da un pittoresco insieme di tende colorate che danno al luogo un aspetto innegabilmente himalayano, dove però le deiezioni, i residui fisiologici e quelli ancora di parecchie vomitate (segno certo di malesseri legati al cosiddetto mal di montagna) sono ornati in questo caso di cartacce, lattine, scatolette arrugginite, bottiglioni PET da un litro e mezzo (anche di Coca Cola) abbandonati sul ghiaccio calpestato e di colore scuro.
E’ ormai notte. Il rifugio Goûter, che già dal primo pomeriggio brulicava della miriade di alpinisti formicolanti giunti da ogni dove fin lassù come noi – tuttavia con una prevalenza di catalani e di polacchi (pochissimi gli italiani) – si è andato se possibile riempiendo sempre più di uomini comparsi dal buio e dal silenzio della notte alpina. Così tutti i tavoli e il rettangolo di pavimento sotto i tavoli, le panche, le sedie accostate a due a due, i gradini delle scale, gli angoli dei muri, le soglie delle porte, infine l’ingresso davanti al rifugio a poco a poco sono stati trasformati in giacigli di ripiego in attesa di compiere lo sforzo definitivo di lì a qualche ora.
Terzo giorno
Non molto più tardi infatti, dopo aver conquistato il vassoio fumante di una colazione piuttosto avara contesa fra decine e decine di braccia spasmodiche, si è cominciata a snodare verso l’alto la fila dei lumini frontali, simili prima a lucciole tremolanti nell’oscurità poi a una successione sempre più ordinata di piccoli lampioni che a poco a poco, nella quiete notturna che avvolgeva ogni cosa, si è distesa fino a disegnare una sola linea irregolare fra il rifugio e la punta del monte.
Lasciato alle nostre spalle il bivacco noto come Capanna Vallot (4362 m), l’aurora perlata ha cominciato a svelare i profili obliqui e verticali delle creste intorno a noi e le ferite degli innumerevoli crepacci, spingendo nello stesso tempo una brezza leggera che per la prima volta ha cominciato a fasciare di freddo i nostri corpi. Poco più in alto ci si è trovati a superare uno dei punti più impegnativi del percorso, una larga e profonda fenditura nel bianco che al ritorno, essendo priva di ponticelli di ghiaccio, è stato necessario oltrepassare con un salto deciso a piè pari (essendoci divertiti, poiché ormai ne avevamo il tempo, a compiere questo balzo dopo aver indugiato parecchio su di una elaborata ma impeccabile manovra di sicurezza con i chiodi da ghiaccio, tale circostanza ha dato modo di venire in aiuto a un’eterogenea comitiva di spagnoli che stava salendo con il sole già molto alto, guidata da un signore piuttosto anziano e dalla quale sono spuntati anche dei bambini dal passo incerto).
Ancora un po’ di pazienza, ed eccoci anche noi finalmente in cima. Già da parecchio tempo sapevamo che ce l’avremmo fatta, anzi, che in un certo senso eravamo costretti a farcela: il bel tempo infatti ci spingeva. La circostanza era eccezionale. L’immobilità dell’aria e il calore che in assenza di nuvole il sole aveva cominciato ad irradiare generoso su ogni cosa fino all’orizzonte, avrebbero consentito di stendere sul ghiaccio addirittura una tovaglia per un pic-nic come fossimo stati sul nostro Appennino. Sotto comunque era il vuoto di un’altezza vertiginosa, tutt’intorno il grigio e il verde netti delle lontananze più profonde. La mole dell’Aig. du Midi, laggiù in basso, ricordava un’architettura futuristica degna di figurare nel film Metropolis, ma minuscola e come osservata attraverso un cannocchiale capovolto.
I catalani accanto a noi si muovevano entusiasti, avvolti in una tela rossa e gialla di cui sembravano molto orgogliosi e che li distingueva nella piccola folla che si era radunata sull’arco di ghiaccio della punta. Un ragazzo indossava dal rifugio, sopra l’armamentario alpinistico, una maglietta nera su cui risaltava una scritta rossa: no guerra. Il momento indubbiamente aveva una sua solennità. Un tale invece si sta facendo fotografare dopo aver sciorinato, a braccia distese, il tricolore che costituisce la nostra riconoscibilissima bandiera. Osservando la scena con maggiore attenzione, ci accorgiamo che si tratta dell’on. Gianni Alemanno, il ministro delle Politiche Agricole. Proprio lui, il ministro alpinista! Accompagnato da una guida di Courmayeur che singolarmente si esprime con un incomparabile accento romanesco. Ci stringiamo le mani, abbozziamo con loro una conversazione fra cinque conquistatori di vette. Ci si dà del tu, in alto si mettono da parte le differenze. Tuttavia, quando viene a sapere che entro sera ritorneremo a casa nel cuore della nostra Emilia, Gianni increspa le labbra accennando a una smorfia appena trattenuta. Questo incontro insolito va ad aggiungersi nell’album disordinato delle belle immagini che portiamo giù a valle dentro di noi e che la memoria conserva.
DOPO.
Si ripensa all’impresa compiuta, si valuta ciò che si è fatto, ci si racconta rievocandole le cose viste insieme. E si fanno i conti. La montagna è un luogo per eccellenza democratico, aperto a chiunque, o almeno a chi sappia affrontarne le difficoltà crescenti. Tuttavia essa ha un prezzo: è lontana, e poi richiede di essere adeguatamente attrezzati. Così ci si divide le spese.
Marco Bulgarelli
Punti appoggio
Refuge Tete Rousse 3167 m
Spese nel 2003
Autostrada+carburante; Tunnel del Monte Bianco; petit train du glacier; 1° e 2° pernottamento+cena; spese voluttuarie (una frittata+una birra+una bottiglia di acqua minerale=42 euro).
Tot. 450 euro. Diviso tre = 150 euro a testa, per un’esperienza che sarà indimenticabile.
Primi salitori:
Accesso:
Quota / Condizioni
Relazione salita:
Ripetizione del 19/02/2015
compagni: Marco Bulgarelli – Umberto Baraldi
Schizzo:
Discesa:
GPS:
Note:
Bibliografia:
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