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cresta Signal

Punta Gnifetti 4554m

Una cresta dal sapore himalayano nelle Alpi.

Andar per creste di alta quota svelate dai nostri impareggiabili bisnonni, verso la fine del diciannovesimo secolo, penso sia una attività sublime. Sicuramente è l’Alpinismo che più amo, che più sento vicino al mio canone estetico di andare per montagne. Certe salite vanno gustate e pregustate con i tuoi compagni di scalata, con mesi di anticipo e questa è stata una di quelle. Dopo l’ebbrezza della Biancograt, già dopo pochi giorni, la mente era alla ricerca di un’altra salita di ampio respiro, a cavallo del vuoto ed immersi nel cielo.

Forti e rassicurati dalla esperienza formativa che è stata quella magnifica cresta sul Bernina, spingiamo l’asticella ancora un po’ più su. Marco si lascia convincere senza difficoltà, troviamo piena comunione di intenti e so che la diatriba sarà solo eventualmente nell’approccio e logistica, ma anche in quello ci troviamo subito d’accordo.

Quattro giorni sembrano il periodo minimo per affrontare la salita con acclimatamento e senza “strappi al motore”, l’appetito vien mangiando e dopo la cresta Signal stiamo sognando di dormire al rifugio Margherita ed il giorno seguente affrontare pure la salita della Dufour per la normale. I dislivelli paiono già sulla carta importanti ma la bonarietà del versante occidentale e una sovrastima delle nostre capacità, ci portano a pensare come un obbiettivo alla portata di mano, anzi un peccato non realizzare l’en plein di 3 quattromila di cui due nuovi per noi.

In un caldo pomeriggio di luglio l’auto è stivata, i nostri zaini abbassano le sospensioni ed immaginarli sulle spalle per tutte quelle ore, dimezza già il fiato. Il primo giorno pernotteremo al B&B 10 e lode che per 30€ a testa ci permetterà un certo lusso prima dei bivacchi previsti. La struttura è ricavata in una ex scuola elementare, qua e là qualche tavolo, lavagna e libro. Marco si sente a suo agio, quasi al lavoro direi, come un insegnate senza allievi che frequenta la scuola in periodo estivo.  Anche io ne conservo un ottimo ricordo e non possiamo che consigliarlo.

L’indomani si parcheggia ad Alagna Valsesia e qui lo spettacolo si apre in tutta la sua potenza. Le tipiche costruzioni Walser e la serenità della cittadina poco hanno da spartire con la visione del versante E del Monte Rosa, che è qualcosa di impressionante. Vera cattedrale di ghiaccio oppone allo sguardo una barriera che nelle dimensioni ricorda più un Himalaya che non le Alpi. Le pendenze non sono quelle del Bianco, mancano le guglie ed i pinnacoli granitici appuntiti e la struggente complessità del gigante ma qui siamo di fronte a quasi 3000m di parete che dai verdi prati erodono a rosso gneiss fino a lucente ghiaccio che buca le nubi.

La parete è immensa, le distanze pure, ma le pendenze non sembrano schiacciare chi vi si avventura. Iniziamo a camminare. Subito le cascate dell’Acqua Bianca rinfrescano la calda giornata, decidiamo di darci un limite massimo di ascesa: mai più di 300m/h pena esaurire le energie su quei 2200m che ci aspettano fino alla capanna Resegotti. Malgrado lo zaino prossimo ai venti chili e le imposizioni mentali sarà difficile mantenere quel lento passo, 7 ore di avvicinamento sembrano troppe ma non appena superiamo il rifugio Barba Ferriero capiamo siamo stati lungimiranti. Le tracce spariscono, il sentiero accennato perde visibilità, alcune nubi basse ci fanno abbandonare più volte la retta via. Leggiamo la cartina ripetutamente e cerchiamo di emulare ora, su questi pianori rocciosi, la traccia studiata meticolosamente a casa ormai da settimane. Intravediamo la cresta e le propaggini seraccate del ghiacciaio che scende dalla punta Gnifetti, ma di bivacco Resegotti neanche l’ombra. Prendiamo quota lentamente e confideremo che quando l’altimetro segnerà solo un centinaia di metri alla capanna, questa ci apparirà in tutta la sua accoglienza. Ormai sul ghiacciaio delle Locce la neve bagnata e pesante di un caldo luglio lambisce i nostri scarponi. Decidiamo di non indossare i ramponi solo perché sappiamo che le ultime difficoltà saranno un breve tratto ferrato su roccette.  Eccolo, come miraggio nel deserto appare una costruzione nera, simile ad un nido d’aquila si staglia nel cielo, appoggiato sulla cresta, magnifico ma improbabile nella sua statica posizione.

Intravediamo anche il luccichio delle maglie metalliche e degli spit che con movimento ascendente verso destra segnano la direzione di salita fino al nostro ricovero notturno. Sono passate 7 ore da quando abbiamo indossato gli zaini ed ora il loro peso pare moltiplicato sulle nostre spalle.  L’ultimo tratto ripido è la cosiddetta prova di forza, siamo già esausti ma intuiamo che quello sarà il punto di non ritorno. Se arriviamo al bivacco il ricordo vivo dello sforzo necessario per raggiungerlo ci motiverà per la salita dell’indomani.

Tiriamo fuori la corda, una piccola crepaccia terminale si oppone tra noi e l’inizio del tratto metallico. Gli imbraghi sono sul fondo dello zaino, o forse sono sopra, ma nessuno dei due ha la forza e coraggio per toglierselo. Decidiamo in una sicura a spalla e ci assicuriamo alla corda con un improvvisato imbrago di corda, quanto fosse corretto per fortuna non l’abbiamo mai testato. Con un po’ di peripezie, date più dallo zaino che pareva attirato magneticamente dalla voragine, che altro, afferro la catena e mi tiro di forza ormai privo di ogni stile. Recuperato Marco mi lascio superare sulle roccette, ho decisamente esaurito ogni energia ed anche i pochi metri che ci separano dal riparo paiono non finire mai, Marco mi incoraggia e proseguo. Entrati nella capanna ci accorgiamo non siamo i soli, una guida con cliente siedono e dividono il tavolo con due giovani ragazzi marchigiani. Poco dietro di noi salivano altri due alpinisti e così pochi minuti dopo si riapre la porta ed in men che non si dica, siamo già in otto a sciogliere neve, tagliare pane, formaggio e scambiarci the caldo e racconti.

L’atmosfera è calda e rilassata, le parole girano insieme alle frugali vivande che vengono subito condivise e presto le energie sembrano rimpadronirsi dei nostri corpi.  Si fa acqua velocemente con legna sotto la capiente pentola in dotazione alla capanna che, ora, ci appare come il miglior posto in cui potevamo approdare.  Tra malati della stessa passione occorre poco per far combutta e prima che volga il tramonto siamo tutti affiatati come amici di vecchia conoscenza, strano come i luoghi stretti e l’isolamento possano catalizzare le persone e farle sentire simili anche se così diverse.

Nell’attesa del risotto leggiamo il libro delle ascensioni al bivacco, pochi giorni prima Christophe Profit era salito con cliente e la sua firma stacca in me un senso di orgoglio ma anche di timore, per quello che il giorno dopo ci riserberà.

L’indomani la sveglia suona troppo presto, alle 3.00 la spegniamo svogliatamente e ci scambiamo le impressioni della notte. Io ho dormito poco ma ancora meno Marco che pare anche accusare un senso di nausea. Il morale è basso. Lasciamo andare avanti le altre cordate, sicuramente più veloci, per non avere dietro le spalle il respiro e l’assillo di decisioni e passi non nostri. Ci consultiamo ancora, gli sguardi di una cordata affiatata in certe occasioni, parlano più di cento parole ed in quella era chiaro che non siamo scesi solo perché tutti e due sapevamo che l’occasione era unica, che nessuno dei due era disposto a ripetere quei 2200 infiniti metri di salita.

La luce della frontale illumina le moffole fuori dalla porta del bivacco. Siamo usciti ed il primo, duro passo è stato fatto. Sentiamo il sibilo dell’ora più fredda della giornata che scende dalla grossa spalla nevosa che ripara l’esile costruzione. Subito di leghiamo in cordata, stiamo in conserva corta a non più di dieci metri ma non appena i ramponi mordono la ghiacciata cresta orizzontale, veniamo investiti da raffiche che destabilizzano la postura, quindi dimezziamo i metri che ci separano. Il terreno pare perfetto, le punte mordono e scommetto emettevano quel classico e rassicurante suono tipico della neve ghiacciata trasformata, suono che nessuno di noi udì perché sormontato dal sibilo del vento che non ci abbandonerà più per tutta la salita. Vere e proprie mitragliate d’aria che ci obbligano più di una volta a metterci carponi nell’intento di caricare gli attrezzi con tutto il nostro peso, per non farci prendere il volo. Giunti al colle Signal capiamo che la salita già impegnativa di suo, sarà resa ancora più ingaggiosa dalla precarietà del nostro equilibrio, messo a dura prova dal vuoto della cresta e contemporaneamente dalla pienezza di colonne d’aria che ci investono senza preavviso. Cerchiamo di salire, consci che non appena la pendenza aumenterà dovremo abbracciare il versante sud-est e quindi saremo più riparati da questa gelida Tramontana.

Mi metto in testa nella speranza che tutti quei mesi di studio dell’itinerario ci aiutino nel districarsi da questa immensa e complessa muraglia, che ora appare in tutta la sua potenza.  Affiora dalla neve una costola rocciosa di rosso gneiss, tirandola mi accorgo che segue la mia mano. D’istinto la afferro ed anziché arrestare il suo moto cerco un improbabile disgaggio nei pochi metri che ci separano. L’errore fu fatale per la nostra corda, la caduta di taglio anche se sulla neve ne causa il tranciamento netto di tutti i trefoli tranne uno, che rimane bianco e solitario nel collegare me e Marco.

Lo sconforto è grande ed il troppo freddo ci obbliga a rapide decisioni. Allora non avevo il coltello a portata di imbrago e penso una roccia sia stata usata come accetta per completare il lavoro. Lo spezzone se lo carica Marco nel già pesante zaino, con l’altro decidiamo di proseguire, non ne misuriamo la lunghezza ma a sensazione dovrebbe essere circa la metà, in caso di doppie non dovremmo avere problemi per la progressione … speriamo. Queste rapide decisioni prese senza dibattiti ci fanno intuire che tutti e due sappiamo di aver passato il nostro nuovo “punto di non ritorno”, ora appare più semplice salire che scendere o perlomeno più rapido. La sintonia di intenti ormai raggiunta porta la cordata a scelte rapide ed istintive e soprattutto condivise. Mentre ascendiamo mi rendo sempre più conto di quanto sia importante questo fattore e di quanto la nostra cordata sia cresciuta da quando ci eravamo trovati legati insieme, senza programmarlo, sulla cresta del Cervino.

Qui le difficoltà sono nettamente superiori, il senso di isolamento è interrotto solo a sprazzi dalla visione della capanna Margherita e dei nostri compagni di bivacco, ormai alti e veloci con un passo che non è decisamente il nostro.

Su questa cresta nulla è scontato, neppure seguire la cresta, anzi l’impegno principale diviene proprio l’intuito alpinistico da affinare ad ogni passo: alla ricerca del passaggio migliore, della minore difficoltà o della roccia più sana.  Spesse volte si deve abbandonare il filo preferendo il versante SE e subito dopo il NE, alla spasmodica ricerca di orientarsi tra i due “grandi risalti” come li ha battezzati il Buscaini.

L’assicurazione è quasi sempre aleatoria ma psicologicamente importante. Le difficoltà sono sempre controllabili e non portano mai al limite, ma è chiaro che la scivolata di un componente sarebbe difficilmente arrestabile siccome, più che di cresta, spesso si è in piena parete sovente impiastrata di neve. Dove la roccia verticalizza proviamo anche ad assicurarci a tiri ma il metodo funziona per poco. Siamo consci degli errori commessi nelle nostre precedenti traversate, e qui allentiamo la corda e velocizziamo la progressione a conserva lunga e protetta pure male. A casa, col manuale in mano, sarei il primo a condannarla, ma qui, quando sei annegato in un versante di 3000m di roccia e neve, prevale l’istinto di sopravvivenza sul dottorato di tecnica alpinistica. Capisci e percepisci chiaramente che la sicurezza tua e del tuo compagno, è legata al tempo di esposizione in questi ambienti, procedere in modo lezioso e didattico spezzando il giusto ritmo è un elemento di insicurezza.

Come spieghiamo spesso agli allievi occorre fare proprie le tecniche e creare quegli automatismi per cui non occorre più fermarsi e pensare perché lo si faccia, ma farlo: subito, bene e basta. Malgrado spesso mi metto in cattedra, ora sono io l’alunno. Questa cattedrale di ghiaccio esige il rispetto, l’attenzione e le risposte che un professore si merita. Sai che hai studiato per l’interrogazione, ed anche le domande sono tutte alla tua portata ma, il suo svolgimento è snervante. Il tempo pare dilatato e non ne vedi la fine.

Giunti sotto al grande risalto sommitale ne intuiamo la salita, ma con difficoltà superiori a quanto aspettato e con energie ormai al contagocce. Decidiamo quindi di glissarlo sulla sinistra, in piena parete SE.  In uno scivolo nevoso dalla pendenza costante sui 50°, ne intravediamo una scappatoia. Qua e là affiorano diverse roccette ormai rese roventi dal sole alto e sembrano ottimi punti di assicurazione intermedia per vincere quel traverso infido, su neve resa marcia dall’energico sole di luglio. Peccato che ogni spuntone si paleserà o inaffidabile o completamente spiovente. I friends e nuts escono senza trovare ostacolo alcuno, i cordini finiscono sulla neve e di batter chiodi per ritrovarsi in mano delle briciole di montagna non pare igienico, in quel punto, a quella quota ed a quell’ora.

C’è da fare una cosa sola, anzi due: salire e non cadere.

Svolgiamo le anse e ci allunghiamo ai capi della corda mozza, qualche decina di metri permette di essere in modo alternato sulle difficoltà.

Quando io tiro il fiato, Marco lo trattiene e viceversa.

Questo pendio si rivelerà la parte più snervante della salita. Ogni passo lo scarpone prima affonda fino al ginocchio, ma quando caricato, pare non trovare appoggio sicuro.  Il peso del corpo con lo zaino stivato delle vettovaglie, pentole e gas da bivacco, ora è evidente. La progressione si fa lenta, delicata e poco proficua.

Più che avanzare si annaspa come cani. La piccozza non è di conforto, sprofonda pure lei e non pare a volte tornare alla luce. La necessità aguzza l’ingegno e su due piedi mi invento una “nuova progressione” che consiste nell’affrontare con un pugno sinistro la neve. Le dita distese ed aperte nella moffola ne aumentano la superficie ed usando ora i quattro arti motori riesco ad issarmi su di loro e progredire con una certa continuità, maledettamente lenta ma almeno costante.

Marco fedelmente mi segue, è importante saperlo lì, perché a quel tempo con nessun altro mi sarei sentito altrettanto sicuro. Io dovevo solo procedere, dietro Marco avrebbe fatto tutto nel migliore dei modi e cercato di arrestare una mia caduta, in tutti i modi possibili.

Poter affidare la propria vita ad un compagno di cordata ed a lui giurare lo stesso trattamento, è una delle alchimie magiche dell’Alpinismo, una delle tante per cui vale la pena cimentarsi in questa passione.

Dopo un’ora abbondante su questo terreno vien una gran voglia di ritoccare roccia, per marcia che sia.

E così è quasi un sollievo quando arriviamo al cospetto di una fascia rocciosa rossastra e verticale, la cui salita contraddistingue il meritarsi di nuovo la cresta. Sarà un quarto grado, forse anche meno, ma che fatica ed impegno quei pochi metri con le punte dei ramponi che gracchiano e stridono sul rosso gneiss. In qualche modo, penso molto poco elegante, sono sopra e da qui girandomi per assicurare a spalla Marco mi si apre in tutta la sua bellezza la cresta appena salita ed una goulotte, che a saperlo prima, era forse da preferire.

Non c’è tempo e con corda corta e tirata incito il mio compagno a salire, Marco non si fa pregare.

Ancora pochi metri esposti sul filo ed alle raffiche e si apre la vista del torrione Signalkuppe e dietro si intravede la sagoma della Capanna Margherita, siamo oltre i 4500m e la tensione cala d’un botto e così la fatica esce in modo prepotente, senza preavviso ci sega il fiato.

Sono molte ore che non mangiamo e ci idratiamo, concentrati nello uscire dalle difficoltà, abbiamo ingenuamente pensato di poter salirla tutta senza pause.

Grosso errore.

Gli ultimi metri saranno un calvario, non appena si accelera il passo per giungere alla meta ormai imminente, il respiro viene bloccato da una secca tosse che non lascia scampo. Occorre fermarsi e ripartire, in un continuo intervallarsi che ci fa intuire essere ormai prossimi al fondo del barile.

Prime delle scale della Capanna, abbandoniamo a terra piccozze e corda, osserviamo il vento che ha dilaniato quasi tutto il rosso di una risicata bandiera italiana e sotto quella europea non è messa meglio, avendo perso ben quattro stelle. Riprendiamo su tutto ed entriamo in quello che ora appare come un hotel, ecco dove son finite le quattro stelle!

Ritroviamo gli amici di merenda del bivacco, le facce stanche, cotte dal vento e sole ma soddisfatte. Se loro appaiono così, chissà i nostri volti come saranno, meglio non aver specchi nelle vicinanze.

Al tavolo ci ricompattiamo, Marco si accascia sul piano ed io non lo seguo solo perché è finito lo spazio. I due ragazzi marchigiani parlano già di N dei Lyskamm il giorno seguente, a me arrivare alle funivie pare già un miraggio.

Il pomeriggio scorre tranquillo, ogni piano di scale interne è una piccola cima da raggiungere o discendere e quindi si ottimizzano i giri, saltandone anche alcuno senza patemi di sorta o rimpianti. E’ così che non mi ricordo neppure se prima della cena siamo andati in camerata od ai servizi. Poco importa.

Siamo qui, il tramonto sta esplodendo e la visione del Cervino e Lyskamm dai piccoli vetri che vibrano al vento, è una immagine che mi porterò dentro a vita.

La notte scorre travagliata, la quota batte sulle tempie e la sensazione è quella di essere in piena influenza invernale. Le energie non vengono recuperate, le dita dei piedi rimangono fredde, pure un’unghia pare aver virato di colore. Altro che Dufour, l’indomani sarà già un successo tornare a valle sulle proprie gambe.

Di comune accordo ci dichiariamo completamente soddisfatti, con ammirazione ma senza invidia lasciamo partire i giovani ragazzi marchigiani, che in una settimana han racimolato su il bottino di tre anni di un comune alpinista come il sottoscritto: Kuffner al Bianco, Signal e N del Lyskamm. Chapeau.

Scendiamo sui pianori ghiacciati della normale alla punta Gnifetti, che ora ci appaiono come una comoda e sicura autostrada verso le funivie. In breve al perdere della quota ci sentiamo subito meglio, eravamo decisamente in pieno AMS o mal di montagna che dir si voglia, e quindi presto il passo si fa più deciso e svelto ed in breve tempo arriviamo alla capanna Gnifetti, giusto in tempo per notare le ultime cordate svogliate e ritardatarie che partono, in modo raffazzonato verso il nostro ricovero notturno, appena lasciato.

A quel tempo la funivia era solo da passo dei Salati e quindi la risalita allo Stolemberg donava agli alpinisti l’ultimo strappo finale noioso ma spossante.

Tornati ad Alagna i piedi si scaldano sull’asfalto, l’unghia scura è in buona compagnia di altre, la corda mozza ha fatto il suo dovere e le braccia mie e di Marco si cercano per scambiarsi un segno di riconoscenza della magnifica esperienza insieme.

Lo sguardo sale appena oltre il campanile cittadino, ed ora sappiamo bene perché ci dicevano che:

“La Signal inizia da Alagna !“


Prima salita:

A. Supersaxo e H.W. Topham ed un portatore 28 luglio 1887.


Descrizione tecnica:

Relazione di salita 20-22 luglio 2008

Difficoltà :D, passi di III e IV, canali nevosi sui 50°-55°
Impegno :IV
Tipologia itinerario :via in alta quota, non sempre evidente ma anzi da cercare con intuito Alpinistico, la presenza di un rifugio alla partenza ed uno all’arrivo non deve farla sottostimare. Protezioni aleatorie o di difficile piazzamento.
Relazione :ottima la TCI, Buscaini (vedi sotto)
Dislivelli :+2200m circa fino a Capanna Resegotti 3624m, +930m cresta vera e propria, – 1800m circa per tornare impianti.
Punto partenza : Cascate Acqua Bianca 1190m. Alagna Valsesia (VC), Piemonte, Italy.
Punto arrivo massima elevazione:Punta Gnifetti, 4554m
Materiale:NDA, 1 piccozza classica, ramponi da misto, 2 friends 0.5 ed 1, qualche nuts, 1 mezza corda 60m doppiata.
Consigli:Solo in cordate affiatate.

 

Ad inizio stagione quando la neve e ghiaccio consentono la progressione con ramponi per tutto l’itinerario.

La Resegotti è dotata di stufa (portarsi legna) e pentolame, evitate di portarle su come invece abbiamo erroneamente fatto noi. Si può fare acqua a pochi passi dalla capanna ponendo attenzione alle numerose deiezioni.

TCI Buscaini
Traccia cresta Signal

Dislivelli/sviluppo:

+2240m circa fino a Capanna Resegotti 3624m / 

+930m cresta vera e propria / 1300m

– 1800m circa per tornare impianti /


Punti di appoggio:

Bivacco Resegotti
Capanna Margherita
Capanna Gnifetti

Cartina con tracciati:

TCI Monte Rosa, Buscaini


Foto del tracciato:

tracciato dei 3 giorni su foto © monterosa-ski
Tracciato Signal da Alagna
Tracciato Signal da Traversata dei Camosci
Tracciato Signal dalla Capanna Margherita

GPS :


Visualizza mappa ingrandita


Video

Routes of the sky – Vie del cielo from nikobeta on Vimeo.

Quando ti trovi solo con il tuo compagno di cordata che ricalca le tue orme, su una neve ghiacciata dall’alba del primo mattino, sei in bilico su una lama che taglia il concetto di orizzonte, intorno a te solo il vuoto, eppure capisci che poche altre volte nella tua vita sei stato così pieno. Se quello è, ora, il solo posto in cui vorresti essere: La Via del Cielo ha preso anche te.
Ed allora ecco che a pochi chilometri da casa si possono ancora intraprendere veri e propri viaggi, isolati come in mezzo al deserto del Gobi, immersi in una natura lussureggiante come quella del Borneo, in ascetica introspezione ed ascolto di se stessi e dei propri limiti come in un monastero tibetano. Questi luoghi sono le nostre Alpi. Anche se ogni versante ormai è martoriato da impianti e turisti della neve, è ancora possibile addentrarsi in luoghi dove la natura è la sola a dettare legge.
_________________
When you’re alone with your climbing partner who follows in your footsteps on a frozen snow dawn of early morning, you’re poised on a knife that cuts the concept of horizon, only emptiness around you, yet you know that few other times in your life you have been so full. If what is now the only place where you want to be: The Ways of the Sky took you too.
And then behold a few miles from home can still take the actual travel, as isolated in the middle of the Gobi desert, immersed in lush nature such as Borneo, in ascetic introspection and listening to themselves and their limits as in a Tibetan monastery. These places are our Alps Although each side now is battered by snow and leisure facilities, you can still go into places where nature is the only one to dictate.


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Alta Quota 25 25

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beginner couloir ice climbing

vajo dei Colori

gruppo Carega 2259m

Piccole Dolomiti (Vi)

Bel canale, non difficile ma dal discreto sviluppo e qualche passaggio tecnico su misto (almeno nelle condizioni trovate).
Se lo si abbina alla salita a Cima Carega 2259m dopo la Bocchetta Mosca ne esce un itinerario grandioso ed a ragione un classico delle Piccole Dolomiti.


Apritori:

, ,

Difficoltà:

Obbligatorio:

, ,

Sviluppo:

Quota:

,

Esposizione:

,

Ubicazione:

,

Tipo terreno:

,

Bellezza:


Accesso:

Al rifugio Campogrosso 1464m parcheggiare, se la strada fosse chiusa meglio salire in circa 1 ora il ripido sentiero delle Mole (143A) parcheggiando presso il tornante prima del rifugio La Guardia (1099m).

Imboccare il 157 che in falsopiano e con lungo giro traversa prima la Pra degli Angeli e poi il Boale dei Fondi (discesa classica). 
Alla sella dei Cotorni imboccare il sentiero 158 che in breve immette nel vajo vero e proprio.


Schizzo:

da: VAJI invernali di Tarcisio Bello, Zevola,Tre Croci,Plische,Carega. 2011. ISBN:9788875261047

Relazione salita:

Partenza con pendenza sui 30-40°. Con poco innevamento si aggirano facilmente grossi massi.
Dopo circa 50m di dislivello si arriva ad un bivio, tenere l’impluvio a SX perché a DX si prende il Vajo Camosci. Dopo qualche altro grosso masso la pendenza aumenta a 45° fino ad arrivare ad un altro bivio ove una freccia rossa sbiadita indica la destra.
Il vajo pian piano si chiude a camino fino a quando si intravede l’unico vero sbarramento naturale fatto da un salto di roccia di circa 8/10m ( in anni nevosi diventa un piano inclinato di neve a 60°).
Con scarso innevamento, poco prima sulla dx prendere un canalino che porta all’attacco di un tratto attrezzato (sepolto da neve in caso di forte innevamento).
Utilizzare i fittoni per far sicura e proteggersi nel breve tratto di 20m di arrampicata di III.
Dopo questo tratto quasi verticale su roccia, c’è un lungo traverso di 30m (possibile proteggersi con altri pioli) che ci riporta sull’impluvio nevoso.
Solitamente da qui in poi si trova tutto coperto con pendenze sui 50-55° e un paio di salti più ripidi.
Il vajo termina a Bocchetta Mosca 2029m.
Tot: 3/5 ore a seconda innevamento e velocità progressione.

Ripetizione:

del 06/01/2007 compagno: Marco Bulgarelli


Cartina:


Discesa:

  • classica per il boale dei Fondi
  • volendo dare più sviluppo anche per il Pra degli Angeli

Note:

  • Macchina fotografica dimenticata, tutte le foto sono con un cellulare che nel 2007 permetteva ben poco.
  • Ricordo aver percorso tutto il vajo senza ramponi dato l’innevamento esiguo ma ottimamente trasformato, meglio però averli al seguito ed usarli al primo dubbio, soprattutto in discesa spesso con placche ghiacciate.
  • Caldamente consigliato salire a cima Carega dopo la fine del vajo. Aggiungere 1 o 2 ore alla gita a seconda dell’innevamento e progressione.

GPS:

Total distance: 14950 m
Max elevation: 2094 m
Min elevation: 1486 m
Total climbing: 1891 m
Total descent: -1937 m
Total time: 06:10:52
Download file: Wikiloc-vajo.dei.colori.gpx

Bibliografia:


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Alpi Centrali Alta Quota Racconti di Montagna relazioni

cresta Hintergrat

Ortles, 3905m

via del Coston di Dentro


La cresta ideale per iniziare a cavalcare le Alpi

“Destro, sinistro, prima uno e poi l’altro”

Il mio respiro si stagliava netto nell’aria fresca di un mattino di fine luglio.
I passi li sentivo leggeri.
Sotto di me la solita tanta voglia si salire.
Dietro un amico che non mi perdeva di vista.
A fianco le prime luci scoprivano il vuoto che ci circondava.
La sensazione di essere nel posto giusto mi aveva già permeato, era un po’ che non la percepivo così viva.
Quella pala ghiacciata alla sinistra, il Gran Zebrù, ora mi indicava chiaramente che anche il momento era quello giusto.
Dopo mesi in cui mi sembrava di non riuscir più vedere, ho colto netta la sensazione dell’orizzonte.
La mente è sgombra finalmente, l’unica cosa è mettere avanti il piede sinistro, poi il destro ed ancora, il sinistro.
Ritmo semplice, onesto nella sua successione, mai banale o scontato però.
Così come è chiaro che ogni salita, dalla più semplice alla più complessa, è composta da piccoli passi ora mi era chiaro che l’unica cosa era seguirne l’alternarsi,

prima uno e poi l’altro.


Mi giro dietro e vedo Marco, fidato custode delle mie orme mi segue e nel nostro lento ma costante intercalare di destra e sinistra, intravedo la forza di una profonda unione.
D’altronde solo pochi giorni prima la mia idea di venire qui lo aveva solleticato ed incuriosito, senza opporre resistenza, aveva confermato la piena comunione di intenti.
Questa salita me la ricordo bene, è chiara in me di una consapevolezza che faticavo a percepire da tempo.
Si respira aria di alpinismo storico quassù, mi immagino ancora sul finire dell’ottocento questi cacciatori che si avventurano su linee ardite, veri esploratori animati dalla antropomorfa e primigenia ricerca del non conosciuto.
Sorrido e comprendo quanta distanza e rispetto dobbiamo a quegli Alpinisti nel considerare che solo qualche ora prima avevo scaricato da casa le previsioni meteo a quattro giorni e mi pregustavo la cima da una webcam sullo Stelvio.
Ora però la vetta appare solo come la probabile fine di questa poderosa montagna.
Nella cresta che pestiamo e nel continuo susseguirsi di roccia, neve, vuoto, intuiamo di quanta materia è composto un quasi quattromila metri.
Eppure la stessa materia appare un attimo dopo fragile ed effimera.
In equilibrio precario con la sua stessa esistenza, minacciata da continue scariche e distacchi, alcuni dei quali difficilmente immaginabili se non ci si trova nelle vicinanze e si percepisce, nel tremore della roccia sotto le mani, la vastità del crollo.
Tuttavia lei è ancora lì.
Si avvicina ma non si raggiunge.
Si cammina, si scala, si arrampica, si tira fiato.
L’aria ormai ha preso il ritmo dei passi, la cadenza è la stessa,

il sinistro …
un respiro …
il destro …
un respiro.


Un respiro, un respiro, un respiro, la cima è nostra…
si ma solo per il tempo di un respiro.

N.Bertolani

Prima salita:

Johann e Michael Hell, con Joseph Pichler e un cacciatore di camosci di Langtaufers, luglio 1805


Relazione di salita 29-30 luglio 2006

Salita (in rosso):

foto storica del percorso Hintergrat da TCI Guida dei Monte d’Italia – Touring Club e CAI

La montagna appare da subito poderosa, maestosa e complessa nelle sue creste.
Dal rifugio del Coston 2660m, raggiungibile tramite da Solda tramite funivia (0.40-1 ora) o sentiero (2 ore), la cresta del Coston o Hinter-Grat appare come una successione di quattro punte l’ultima delle quali, il Signalkopf (3725 m), è il limite massimo da cui rientrare in caso di maltempo o scarsa visibilità.

Infatti la salita si svolge per facili pendii sul lato sinistro della cresta, fino alla terza punta rocciosa di 3466 m; da qui, per un’ampia sella nevosa, si raggiunge il Signalkopf (3725 m), un’alta torre rocciosa da aggirare sul lato sinistro (Sud Ovest).

Qui si trova il passaggio chiave della salita (5m di fessura di IV grado , consumato ma con alcuni chiodi nel passaggio). Una successiva selletta porta a due salti di roccia ove noi abbiamo trovato un altro tratto di III (leggero strapiombo con 1 chiodo, utile 1 friend) , intervallati da altrettante creste nevose moderatamente affilate che conducono in vetta appena sotto la soglia dei quattromila (3905m).

Prevedere 5-7 ore a seconda dell’innevamento e dei tiri di corda stesi. Noi abbiamo impiegato circa 8 ore facendo 3 tiri in progressione protetta ed altrettanti di conserva.

Valutazione AD.


Discesa (in verde):

Rosso = Hintergrat Bianco = Marletgrat Verde = normale per il Payer

Per la discesa, dalla cima seguire la via normale del versante Nord, attenzione con scarsa visibilità data la modesta pendenza ed i numerosi crepacci alcuni dei quali si superano su ponti un po’ precari.

Alla fine del ghiacciaio sommitale si trova il Biv. Lombardi (3316 m, inagibile). Da qui perdere quota di qualche metro traversando a sx, faccia a valle, fino a trovare cordini per discesa in doppia da effettuarsi con celerità visto le frequenti scariche dai seracchi dell’imminente Eisrinne.

Ora scendere nel centro del ghiacciaio fino alla fine della cresta rocciosa che ci segue a dx. Traversare orizzontalmente verso dx (Est) per morena instabile ed a tratti ghiacciata con passo deciso visto la frequenza di scariche pietrose.

Ora si è giunti sulla cresta della Tabaretta da scendere con 2 doppie od arrampicata non banale (III grado, grande esposizione) Un’altra ora di sentiero con qualche tratto attrezzato e si è al ormai agognato Rif. Payer (3029 m).

Se le gambe tengono scendere in direzione N e poi NE oltrepassando il Rif. Tabaretta (2256 m) e quindi a Solda (1800m).

Complessivamente 4 ore per raggiungere il rif.Payer più 3 per arrivare a Solda ed accorgersi di aver salito 1300m e scesi 2100m.
Le vostre ginocchia vorranno divorziare al parcheggio ma con lo spirito sarete ancora verso i quattromila metri.

Valutazione PD+/AD-


Scheda salita

Difficoltà :AD, passi di III, 1 di IV, canali nevosi sui 35°-40° il tutto concentrato nell’ultima porzione di cresta.
Impegno :III
Tipologia itinerario :via in alta quota, non difficile ma su terreno friabile che richiede attenzione. Cresta vera e propria solo l’ultimo 1/3.
Relazione :ottima la Guada dei Monti d’Italia, TCI (vedi sotto)
Dislivelli :+1300m circa dal rifugio alla cima 3905m,  – 2100m circa per tornare a Solda.
Punto partenza : Soldà
Punto arrivo massima elevazione:monte Ortles, 3905m
Materiale:NDA, 1 piccozza classica, ramponi da misto, un friends 0.5 ed 1, qualche nuts, 1 mezza corda 60m doppiata.
Consigli:Ad inizio stagione quando la neve e ghiaccio consentono la progressione con ramponi per la maggior parte dell’itinerario, od almeno sulle difficoltà.

 

Non sottovalutare la discesa per la normale, in caso di scarsa visibilità potrebbe essere più sicuro ripercorrere a ritroso la via di salita.


Dislivelli/sviluppo:

+1300m circa dal rifugio alla cima 3905m

– 2100m circa per tornare a Solda


Punti di appoggio:

rifugio del Coston
rifugio Payer
rifugio Tabaretta

Cartina con tracciati:

Cartina TCI Ortles Zebrù Buscaini

Foto del tracciato:

Rosso = Hintergrat Bianco = Marletgrat Verde = normale per il Payer
Panoramica da bivacco Cantù su Ortles

GPS :

dal rifugio Coston.


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I giorno : Soldà -> rifugio Coston

II giorno : rifugio Coston -> Ortles -> rifugio Payer -> Soldà

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Brentino rock climbing Sass de Mesdì Sport Climbing val d'Adige

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Note Storiche:

La via “Anche per te” … a dire il vero la mia memoria comincia a vacillare e nella mia mente è rimasto gran poco.
Ricordo solo le sfacchinate fatte nei vari approcci risalendo le corde fisse e in una delle quali avevo sulla mia sinistra un giovane Daneri che stava aprendo la “Bruce Springsteen”.
Ci scambiamo le nostre impressioni sulle rispettive vie e ognuno continuò per la propria strada.
Arrivato a quello che è il penultimo tiro, appena uscito dal tratto strapiombante, mi si presentò una magnifica placca esposta, all’apparenza blindata!
Fu per me il tiro che mi diede più soddisfazione di tutti gli altri della via. Riuscii a superarlo in completa arrampicata libera e dal basso.
Con enorme sorpresa la placca liscia presenta gocce e tacche, all’apparenza non visibili, poste per incanto dove servono e che mi hanno dato la possibilità oltretutto di fermarmi per piazzare le protezioni e che con andamento destra-sinistra fa guadagnare il facile tiro finale.
Un ricordo invece indelebile è stata la massacrante discesa a valle con uno zaino da 70 litri, strapieno contenente tutte le corde fisse lasciate in parete più: trapano, martello, chiodi, rinvii, friends, dadi ecc…
Il tutto non ci stava dentro, perciò tre corde le avevo posizionate sopra lo zaino.
Mi era ritornata in mente la foto di Kaspar Ochsner mentre scendeva anche lui con uno zaino enorme dal Wendenstöcke .
A parte gli scivoloni con varie cadute e la schiena a pezzi, altri ricordi non ne ho.
Ti giro una foto di una ripetizione all’uscita del traverso in placca del quarto tiro su delle magnifiche gocce!

Sergio Coltri
Matteo Vianini sul quarto tiro.
Kaspar Ochsner

Apritori:

Sergio Coltri in solitaria e diverse riprese, terminata il 24 dicembre 1987.


Accesso:

P sulla strada nei pressi del cimitero di Brentino (a volte segnalati furti), percorrere la strada direzione S fino alla fine del vigneto e poi per traccia ripida verso W dapprima su ciottoli e poi nel bosco.
Attenzione al raccordo con le Pale Basse (Mamma Olga) salire ancora e non traversare a SX (faccia a monte)
Poco dopo si incontra una breve fascia rocciosa che si supera con corde fisse (terreno friabile, rimanere o vicini od al riparo fuori dalla verticale). Dopo 30/40 min si arriva al secondo raccordo alla base della Pala del Boral, tenere quindi la SX verso il Sass de Mesdì (es. via Capitani Coraggiosi) e tramite qualche sali e scendi ma 150m prima della base dell’impressionante placca con il ciclopico tetto, attacca la via con scritta alla base.

Tot 45 min / 1h


Relazione originale 1987:

su gentile concessione di Sergio Coltri

Schizzo:

n°12 via Anche per te
su gentile concessione di Beppe Vidali, da “Tra il lago ed il fiume”
su gentile concessione di Sergio Coltri

Descrizione tiri:


Discesa:

Soluzione A:

Usciti dalla via si tiene per tracce di sentiero esposto verso S e ci si porta sul una piazzola dove esce la Desiderio Sofferto.
Da lì con 3 doppie da 40m non obbligate utilizzando le numerose soste sulla parete, ma stando leggermente a SX (viso monte), si giunge alla base della parete.
A ritroso fino al raccordo e poi giù fino al parcheggio.
Tot: 1/1.5 h a seconda della velocità nelle manovre.

Soluzione B:

Usciti dalla via si tiene per tracce di sentiero esposto in direzione N fino ad incrociarne una possibilità di discesa tramite flebili tracce verso DX (Ovest).
Per rami e gradoni si perviene in breve alla cengia di attacco alla base della Pala del Boral. Di qui a ritroso verso S si perviene al raccordo tra la Pala del Boral ed il Sass de Mesdì e quindi si scende per sentiero evidente.
Tot: 1/1.5 h

Soluzione C (sconsigliata):

Se si salta il canale di discesa per la Pala del Boral si perviene al sentiero delle Laste. E’ quindi possibile seguirlo tutto verso N fino a che questo non confluisce al sentiero che porta al Santuario della Madonna della Corona e poi porta in centro a Brentino . Ciò obbliga poi a tornare per strada fino al P.
Tot: 2 h


GPS:

Total distance: 4400 m
Max elevation: 632 m
Min elevation: 139 m
Total climbing: 901 m
Total descent: -898 m
Total time: 06:38:13
Download file: Brentino.Pale.mediane.Sass.de.Mesdì_2021-05-20_corretto.gpx


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