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normale Sassolungo

Sassolungo – Langkofel, 3181 m

gruppo Sassolungo, Val Gardena (BZ)

Apritori:

Per il Canalone basso: Paul Grohmann, F.Innerkofler e P.Salcher, 1869
Parte finale: L.Bernard e G.Davarda, 1892
Cengia dei Fassani: G.Mayer e militari austriaci, 1917
la “variante delle Guide” al Canalone Basso: M. Bernardi e K. Unterkircher, 1999


Descrizione

Lunga e complessa salita che si snoda su più versanti e pieghe della montagna.
Tecnicamente non difficile siccome non raggiunge mai il IV grado e si svolge su roccia sempre ottima, non è però da sottovalutare. Richiede una buona esperienza ed orientamento per annusare la traccia più proficua oltre ad una certa disinvoltura con la corda, pena dilatarsi i tempi a dismisura od ancora peggio trovarsi fuori via, con difficoltà superiori e roccia friabile.
Il tutto viene però ripagato con delle magnifiche vedute che cambiano prospettiva e scenari più volte nell’arco della salita e discesa, rendendo questa normale forse la più completa ed appagante dell’intero arco Dolomitico.


Accesso:

P al passo Sella, nei pressi dalla stazione telecabine Gondelbahn per la Forcella del Sassolungo (link al P gratuito)


Avvicinamento:

Giunti al passo Sella 2180m si sale o per mezzo della cabinovia o tramite il sentiero 525 fino al rifugio Toni Demetz 2681m situato sulla forcella del Sassolungo. Da lì si scende sul versante opposto, sempre sul 525, in direzione rif.Vicenza perdendo circa 100m di quota fino a che nei pressi di un tornante si stacca una evidente traccia a destra che punta all’altrettanto evidente Cengia dei Fassani, in piena parete SW del Sassolungo.


Foto tracciato:

Versante SW del Sassolungo dalla Torre Innerkofler (it.Mistica, dic 2013)

Schizzo salita:


Eccellente come sempre il Bernardi di cui ho ripreso e rivisto lo schizzo e consiglio l’acquisto (link guida)


Relazione salita:

RELAZIONE (ITA)
Itinerariovia normale al Sassolungo
prima salita2 settembre 1946 – Otto Eisenstecken, F. Rabanser e J. Sepp
Zona MontuosaDolomiti
SottogruppoSassolungo
Settore / Parete / CimaSassolungo
StatoItaly
Località di PartenzaPasso Sella (BZ)
Parcheggiogratuito sulla strada presso il passo Sella
Sentieri525
Punti d’appoggiorif. Toni Demetz , ev. rif. Vicenza
Acquaal rifugio, all’inizio della cengia dei Fassani ed alla base del Canalone Basso
Dislivello avvicinamento [m]+500m circa -100m ( -100m con seggiovia )
Dislivello itinerario [m]700m circa
Sviluppo itinerario [m]2 km circa
Quota partenza [m]2138m (2681 m con cabinovia)
Quota arrivo [m]3181m
Cartografia utilizzataTabacco 006 – Val di Fassa e Dolomiti Fassane. 1 a 25000
Difficoltà su rocciaII con qualche tiro di III (passi di III+)
Qualità rocciaDal buono all’eccellente. Attenzione a non uscire dalla via.
ProteggibilitàR2
SosteLa maggior parte su chiodi o fittoni resinati.
ImpegnoIII
Difficoltà globalePD+/AD
MaterialeNDA, + qualche cordino
Esposizione prevalenteW, SW, N, NE
Discesaper lo stesso itinerario
Data gitasabato 23 luglio 2021
Tempo impiegato avvicinamento20 min (cabinovia)
Tempo impiegato salita6 h
Tempo impiegato discesa5 h
Libro di vettaSI
Giudizio9
ConsigliataSi. Una classica da non mancare.

Difficoltà:

II, III, p.ssi III+
PD+ , R2
700m dislivello, 2000m sviluppo, 3 imp.


Descrizione tiri:

Dato lo sviluppo e complessità ma anche bassa difficoltà della via, la progressione potrebbe essere molto diversa a seconda della cordata. Alcuni non troveranno mai l’esigenza di legarsi, altri lo faranno fin troppo presto.
Per tale motivo si è diviso la salita in 3 macro gruppi A, B, C dando indicazioni per ognuno di questi.
Esplorando diversi versanti ed esposizioni le condizioni possono variare molto e rendere il tutto molto più impegnativo e delicato, informarsi bene prima di attaccare.
Con condizioni ottimali, tipicamente estive e dopo periodi soleggiati la salita si può dividere in 3 fasi:

A = La Cengia dei Fassani fino alla Seconda Forcella.

Lasciato dopo pochi metri il sentiero 525 ci si abbassa di 10m su una rocciosa schiena inclinata che permette l’ingresso alla Cengia dei Fassani tramite una fenditura (1 resinato ad U, 1 p.sso III, spesso neve).
Ora si percorre la larga e comoda cengia dapprima lasciando sulla destra la cascata che scende dallo Spallone (acqua potabile) poi salendo in falsopiano su roccette e detriti fino ad un grande canalone con grossi blocchi sul fondo.
Qui conviene legarsi e procedere in conserva media all’esterno sulla parete su una cengia accennata, senza alzarsi troppo fino a che si perviene su un comodo ballatoio sopra il quale parte un diedro fessurato, con andamento da destra e sinistra (1 cordino).
Salire il diedro o la parete immediatamente a sinistra (III) per una ventina di metri e fare sosta su un bel anello cementato che useremo poi anche in discesa per l’ultima doppia.
Ora il percorso si fa meno evidente ed obbligato quindi occorre cercare la traccia migliore per salire e puntare alla prima piccola forcella, che non è quella più evidente in basso a ridosso di un gendarme, bensì è in alto preceduta da un tetro grottino.
Passata questa Ia Forcella scendere alcuni metri sul versante W e seguendo alcuni ometti e bolli rossi si attacca il tratto attrezzato che, orizzontalmente, ci porta in un umido camino da passare con spaccata. Visibile un chiodo sotto ad un antro color ocra.
Salire la breve verticale fessura a sinistra (III) e poi sempre per percorso da ricercare puntare alla IIa forcella preceduta da qualche passo di III (targa D. Tomaselli + 1 ch).

B = Il ghiacciaio, il Canalone Basso fino alla forcella con l’anfiteatro

Passata la seconda forcella scendere qualche metro e procedere con andamento orizzontale in piena parete N su percorso facile (qualche passo di II) ma esposto. Passati due ancoraggi resinati ad U siamo alla base di un breve strapiombino (III) sopra il quale si trova un altro ancoraggio e la discesa al ghiacciaio superstite diviene evidente.
Abbassandosi di qualche metro si mette piede su quel poco che è rimasto e tagliando la sua lingua inferiore si punta alle rocce appena a sinistra, del ora evidente, Canalone Basso.
Una volta si usava salire la dura neve trasformata nel canalone con i ramponi e piccozza, ora quasi tutte le cordate preferiscono mantenersi sulla sua sponda di sinistra per una variante, ormai classica, tutta rocciosa e parzialmente attrezzata (M. Bernardi e K. Unterkircher, 1999).
Salire quindi per percorso non obbligato ma dettato dalla logica e qualche fittone ad U, la sponda del canalone stando quasi sempre a sinistra dello spigolo su buona roccia (passi di III, 1 p.sso III+).
Giunti sotto ad una parete verticale salirla con l’aiuto di 9 pioli metallici fino a sbucare su un tratto attrezzato con fune metallica che, con andamento orizzontale, deposita sulla terrosa sella da cui ha origine il canalone stesso.

C = l’Anfiteatro, la Gola delle Guide, il Bivacco, la torre Gialla e la cima principale

Scendere qualche metro oltre la forcella del Canalone Basso fino all’Anfiteatro che è un’ampia cengia detritica che taglia orizzontalmente la soprastante parete, denominata Gola delle Guide.
Percorrerla quasi completamente fino ad un grosso ometto di pietra che delimita la congiunzione con la normale dal rif. Vicenza (ormai abbandonata).
Qui alzarsi sulla parete in opposta direzione (verso dx viso monte) e salire il largo canale roccioso per percorso non obbligato seguendo alcuni cordini e chiodi ma stando anche a destra dei gialli strapiombi, puntando ad un grosso masso adagiato alla torre Piramidale che a destra occlude lo sbocco (1 resinato per doppia).
Doppiato il masso salire per roccette sulla parete di sinistra e stando sul bordo di destra in bella esposizione in breve si giunge alla forcella del bivacco Giuliani a 3100m.
Dal retro del bivacco portarsi a ridosso della torre Gialla (o Rossa in alcune guide) e traversare qualche metro a destra per portarsi in piena parete alla base di un diedro verticale (1 p.sso III+ 1 ch, esposto). Salirlo per 25m fino alla sommità della torre (ignorare sosta intermedia su 1 ch+ fix) e quindi fare sosta su resinati (sarà la nostra prima doppia al ritorno).
Ora si è sulla facile ma esposta cresta sommitale in vista della croce di legno e della cima principale, ancora ben distante.
Passare in rassegna tutte le torri stando in falsopiano sul lato di sx delle stesse (versante W, NW) fino alla anticima da cui si scende qualche metro per poi portarsi sulla ultima cuspide sommitale.
Ora sarete sulla cima principale a 3181m.
Targa e libro di via ed una magnifica visuale a 360° su tutto l’arco alpino.

Tot: 4/5h


Discesa:

Per lo stesso itinerario di salita.
Nei tratti più esposti e difficili ed a seconda della stanchezza si possono approntare delle doppie da 30m (sconsiglio più lunghe per evitare incastri). Noi ne abbiamo eseguite 5 in totale di cui solo 2 caldamente consigliate:

  • 30m dalla cima della Torre Gialla (sosta a resinati) fino al bivacco.
  • 30m sotto alla prima forcella (fittone resinato) fino alla cengia dei Fassani

Tot: 5h


Note:

  • Visto e considerato i numerosi tratti in conserva corta/media è un itinerario da affrontare in cordate affiatate. Se non lo sono lo diverranno alla fine della gita !
  • Arrivare in cima con la necessaria scorta di energia e lucidità mentale, siccome lì non si neppure a metà percorso.
  • Non ci sono tiri chiave o passaggi fuori dalle difficoltà medie. Anche questa è la bellezza delle vie classiche.
  • Consiglio la salita e soprattutto la discesa con scarpe da avvicinamento o scarponcini. Scarpette da arrampicata e magnesite solo peso in più.

Cartina consigliata:

Tabacco 006-Val-di-Fassa-e-Dolomiti-Fassane-Catinaccio-Marmolada-Monzoni

GPS


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Ripetizione del 23/07/2021

compagna: Anna Tusini

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Alpi Centrali beginner Prealpi Bresciane rock climbing via arrampicata ambiente

cresta di Gaino

Monte Gaino, Toscolano Maderno (BS), 870m

Una vera e propria pinna calcarea che si alza per più di 800 metri dall’attiguo lago di Garda.
Isolato sovrasta il lato bresciano e da questa visuale la sua mole è seconda solo al vicino monte Pizzoccolo, che però non ne eguaglia le estetiche creste.
Questa relazionata di cresta è la Sud Ovest e fu salita nel 1913 da Francesco “Nino” Coppellotti, Arrigo Giannantonj e Gerolamo Bettoni.
Oggi è ritenuta una delle vie più ripetute dell’intera cerchia delle Prealpi Bresciane ed anche noi, che veniamo dalla pianura per i nostri corsi di alpinismo, ne calchiamo ripetutamente ogni anno le rigole.
La cresta integrale vanta uno sviluppo di 900m e sale lo sperone lungo un percorso non obbligato sfruttando i punti più deboli che raramente oltrepassano il III grado.
Durante la salita è tuttavia possibile percorrere delle varianti che rendono la salita più continua oppure interrompere la salita per le sue numerose vie di fuga ad Est (destra).
Anche se la via termina sull’anticima consiglio proseguire per la vetta vera e propria da cui si gode un panorama a 360° su tutto il lago di Garda, la catena del Baldo che degrada nella valle del Sarca e l’altrettanto bel parco regionale dell’Alto Garda Bresciano

Apritori:

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Difficoltà:

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Obbligatorio:

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Sviluppo:

Quota:

Esposizione:

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Ubicazione:

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Tipo terreno:

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Bellezza:



Accesso:

Nei pressi del paese di Toscolano Maderno seguire le indicazioni per Gaino e poi proseguire per la località Castello (indicazioni per l’omonimo agriturismo).
Raggiunto uno slargo abbandonare la strada principale e imboccare una stradina che si inerpica sulla destra (! curva a gomito stretta).
Lasciare l’agriturismo sulla DX e parcheggiare appena dopo sulla SX, nei pressi di un campo con pannelli fotovoltaici.
LINK al P.
(! Molto frequentato, parcheggiare avendo cura degli altri e se questo P fosse pieno consiglio questo a pochi passi ma molto più spazioso)


Attacco:

Dal P proseguire a piedi su strada asfaltata direzione N sino a raggiungere una sbarra. Imboccare la traccia di sentiero (palina con indicazioni Falesia) che verso sinistra conduce in falsopiano alla base della falesia ed, appena dopo, all’evidentissima cresta.
Si parte in corrispondenza dello spigolo (scritta sulla parete).

Total distance: 939 m
Max elevation: 469 m
Min elevation: 352 m
Total climbing: 119 m
Total descent: -9 m
Total time: 00:49:50
Download file: Avvicinamento cresta Gaino.gpx


Foto di via:

La cresta integrale vista dal monte Pizzoccolo, sullo sfondo il lago di Garda e Baldo (© photo by Alice Zafferri)


Descrizione percorso:

Tutto il percorso è non obbligato ma dettato dalla logica nel seguire la cresta e la linea più facile, sovente segnato da bolli e frecce che indicano come evitare le invitanti varianti.
Il calcare bianco che si incontra è perlopiù di eccezionale qualità tanto che i primi anni duemila le scarpette e mani ne uscivano sempre segnate. Ora i pochi passi obbligati hanno una leggera patina, ma nulla di fastidioso, per ora.
La cresta integrale ha uno sviluppo di quasi 900m e si può dividere in 3 macro parti:

GPS salita cresta integrale (I, II + III parte)

Total distance: 895 m
Max elevation: 409 m
Min elevation: 65 m
Total climbing: 368 m
Total descent: -24 m
Total time: 02:23:23
Download file: Cresta Sud Gaino.gpx

I Parte (sviluppo di circa 250m):

Le difficoltà maggiori risiedono nei primi tiri di corda che sono serviti anche da solide soste su fix.
Nel punto dove la cresta scende quasi verticale per congiungersi al sentiero, formando delle piazzole con alberi, si può attaccare su una fessura verticale a SX di una liscia placca (IV+), oppure qualche metro più a SX su difficoltà appena minori (III+).
Tirati una ventina di metri di corda si fa comodamente sosta su un terrazzino panoramico (sosta a fix e catene).
Ora si prosegue su terreno più discontinuo ma molto lavorato e facilmente integrabile e si attrezzano altre tre soste in posizioni non obbligate.
Qua e là sono visibili varianti (con anche qualche fix) che però aumentano il grado fino al 5b.
In breve si giunge su un pulpito da dove si vedono i successivi torrioni della cresta.
Qui è possibile interrompere la salita scendendo alla sella e prendere la prima via di fuga a DX.

Tracciato di salita e discesa della solo I parte:
Total distance: 1874 m
Max elevation: 597 m
Min elevation: 309 m
Total climbing: 106 m
Total descent: -289 m
Total time: 04:12:25
Download file: RK_gpx _2018-07-14_1155.gpx

II Parte (sviluppo di circa 400m):

Ora il percorso si fa sempre più facile e discontinuo e sale diversi torrioni calcarei ed a volte li schiva stando sulle rispettive gengive.
Quasi da subito ci si presenta un bel tratto fotogenico di questa cresta: una liscia placchetta dalla modesta inclinazione che si adagia su una stretta cengia (1 ch). Se ne esce poi camminando sulla DX e salendo tratti nel bosco fino ad incontrare altri brevi salti rocciosi. Qui diviene vantaggioso salirla di conserva protetta interrotta solo in qualche tratto più verticale ove, ai neofiti, conviene ridistendere le corde.
In questo modo si giunge sulla anticima a quota 848m in breve tempo e da qui si ammira già una splendida visione sul Garda e le cime circondanti.
E’ però molto invitante pure la visione della cresta che ci manca alla croce della cima principale.
Stare quindi leggermente a DX e ridiscendere alcuni metri per intercettarla.

III Parte ( sviluppo di circa 250m):

L’ultimo tratto di cresta tra l’anticima e quella principale è un lungo traverso e regala esposizione ed ampi panorami ma con basse difficoltà.
Qui conviene procedere di conserva medio/corta e far passare la corda tra i numerosi spuntoni per proteggersi.
Alcune volte un sentierino basso eviterebbe le roccette ma sono troppo divertenti ed articolate per lasciarsele scappare.
Una ultima pala lavorata conduce alla massima quota ed in breve ai piedi della croce ove c’è un comodo spiazzo ed il libro di vetta.

Tracciato di salita della II e III parte e discesa:

A volte si potrebbe preferire salire solo la seconda e terza parte, come spesso accade nei corsi di Alpinismo.

Total distance: 3964 m
Max elevation: 874 m
Min elevation: 356 m
Total climbing: 642 m
Total descent: -646 m
Total time: 08:25:00
Download file: GAINO 11-05-2014 corso A1 2014 filtrato.gpx


Relazione di via:


Cartina:

© www.kompass.de – Kompass n° 102 Lago di Garda – Monte Baldo

Discesa:

Discesa dalla Cima principale:

Dalla vetta scendere sul versante Nord opposto rispetto a quello di salita e prendere un evidente sentiero attrezzato che scende a sinistra.
Dopo varie svolte ed un tratto in falsopiano il sentiero arriva ad un bivio in corrispondenza di una sella, qui tenere la DX (a SX si scende in un’altra valle!).
Ora si è tornati sul versante E e si vedrà in alto sulla DX la cresta appena percorsa. Il sentiero è inizialmente ben evidente e non perde quota. Evitare di seguire le numerose tracce che scendono decisamente su terriccio ma seguire alcuni bolli ed il sentiero maggiormente calpestato che in breve porterà a quello principale su ciottolame e poi su carrabile cementata.
Dopo meno di 2 km dalla partenza ci immettiamo sul sentiero di accesso percorso per l’attacco e quindi in pochi minuti si è al P.
TOT: 45/60 min.

Total distance: 2045 m
Max elevation: 914 m
Min elevation: 409 m
Total climbing: 16 m
Total descent: -521 m
Total time: 00:57:46
Download file: Discesa Cresta Gaino.gpx

Discesa dalle vie di fuga:

Se si decide di salire solo la prima parte è utile abbandonare la via sulla DX, alla prima evidente sella (600m slm circa) dove la cresta scende.
Vedi Salita I parte



Meteo:



Note:

  • Evitare i mesi più caldi pena diventare vera carne alla brace.
  • In caso di affollamento salire su linee parallele indipendenti senza incrociare altre cordate, troverete quasi sicuramente corsi o neofiti e quindi non è per loro di facile e sicura gestione sorpassi in parete.
  • In caso di maltempo improvviso (oggi facilmente evitabile) la cresta nella sua terza parte e la cima sono molto esposte a fulmini.


Bibliografia:


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Racconti di Montagna

Racconto cresta Signal al monte Rosa

Punta Gnifetti 4554m

Una cresta dal sapore himalayano nelle Alpi.

Andar per creste di alta quota svelate dai nostri impareggiabili bisnonni, verso la fine del diciannovesimo secolo, penso sia una attività sublime. Sicuramente è l’Alpinismo che più amo, che più sento vicino al mio canone estetico di andare per montagne. Certe salite vanno gustate e pregustate con i tuoi compagni di scalata, con mesi di anticipo e questa è stata una di quelle. Dopo l’ebbrezza della Biancograt, già dopo pochi giorni, la mente era alla ricerca di un’altra salita di ampio respiro, a cavallo del vuoto ed immersi nel cielo.

Forti e rassicurati dalla esperienza formativa che è stata quella magnifica cresta sul Bernina, spingiamo l’asticella ancora un po’ più su. Marco si lascia convincere senza difficoltà, troviamo piena comunione di intenti e so che la diatriba sarà solo eventualmente nell’approccio e logistica, ma anche in quello ci troviamo subito d’accordo.

Quattro giorni sembrano il periodo minimo per affrontare la salita con acclimatamento e senza “strappi al motore”, l’appetito vien mangiando e dopo la cresta Signal stiamo sognando di dormire al rifugio Margherita ed il giorno seguente affrontare pure la salita della Dufour per la normale. I dislivelli paiono già sulla carta importanti ma la bonarietà del versante occidentale e una sovrastima delle nostre capacità, ci portano a pensare come un obbiettivo alla portata di mano, anzi un peccato non realizzare l’en plein di 3 quattromila di cui due nuovi per noi.

In un caldo pomeriggio di luglio l’auto è stivata, i nostri zaini abbassano le sospensioni ed immaginarli sulle spalle per tutte quelle ore, dimezza già il fiato. Il primo giorno pernotteremo al B&B 10 e lode che per 30€ a testa ci permetterà un certo lusso prima dei bivacchi previsti. La struttura è ricavata in una ex scuola elementare, qua e là qualche tavolo, lavagna e libro. Marco si sente a suo agio, quasi al lavoro direi, come un insegnate senza allievi che frequenta la scuola in periodo estivo.  Anche io ne conservo un ottimo ricordo e non possiamo che consigliarlo.

L’indomani si parcheggia ad Alagna Valsesia e qui lo spettacolo si apre in tutta la sua potenza. Le tipiche costruzioni Walser e la serenità della cittadina poco hanno da spartire con la visione del versante E del Monte Rosa, che è qualcosa di impressionante. Vera cattedrale di ghiaccio oppone allo sguardo una barriera che nelle dimensioni ricorda più un Himalaya che non le Alpi. Le pendenze non sono quelle del Bianco, mancano le guglie ed i pinnacoli granitici appuntiti e la struggente complessità del gigante ma qui siamo di fronte a quasi 3000m di parete che dai verdi prati erodono a rosso gneiss fino a lucente ghiaccio che buca le nubi.

La parete è immensa, le distanze pure, ma le pendenze non sembrano schiacciare chi vi si avventura. Iniziamo a camminare. Subito le cascate dell’Acqua Bianca rinfrescano la calda giornata, decidiamo di darci un limite massimo di ascesa: mai più di 300m/h pena esaurire le energie su quei 2200m che ci aspettano fino alla capanna Resegotti. Malgrado lo zaino prossimo ai venti chili e le imposizioni mentali sarà difficile mantenere quel lento passo, 7 ore di avvicinamento sembrano troppe ma non appena superiamo il rifugio Barba Ferriero capiamo siamo stati lungimiranti. Le tracce spariscono, il sentiero accennato perde visibilità, alcune nubi basse ci fanno abbandonare più volte la retta via. Leggiamo la cartina ripetutamente e cerchiamo di emulare ora, su questi pianori rocciosi, la traccia studiata meticolosamente a casa ormai da settimane. Intravediamo la cresta e le propaggini seraccate del ghiacciaio che scende dalla punta Gnifetti, ma di bivacco Resegotti neanche l’ombra. Prendiamo quota lentamente e confideremo che quando l’altimetro segnerà solo un centinaia di metri alla capanna, questa ci apparirà in tutta la sua accoglienza. Ormai sul ghiacciaio delle Locce la neve bagnata e pesante di un caldo luglio lambisce i nostri scarponi. Decidiamo di non indossare i ramponi solo perché sappiamo che le ultime difficoltà saranno un breve tratto ferrato su roccette.  Eccolo, come miraggio nel deserto appare una costruzione nera, simile ad un nido d’aquila si staglia nel cielo, appoggiato sulla cresta, magnifico ma improbabile nella sua statica posizione.

Intravediamo anche il luccichio delle maglie metalliche e degli spit che con movimento ascendente verso destra segnano la direzione di salita fino al nostro ricovero notturno. Sono passate 7 ore da quando abbiamo indossato gli zaini ed ora il loro peso pare moltiplicato sulle nostre spalle.  L’ultimo tratto ripido è la cosiddetta prova di forza, siamo già esausti ma intuiamo che quello sarà il punto di non ritorno. Se arriviamo al bivacco il ricordo vivo dello sforzo necessario per raggiungerlo ci motiverà per la salita dell’indomani.

Tiriamo fuori la corda, una piccola crepaccia terminale si oppone tra noi e l’inizio del tratto metallico. Gli imbraghi sono sul fondo dello zaino, o forse sono sopra, ma nessuno dei due ha la forza e coraggio per toglierselo. Decidiamo in una sicura a spalla e ci assicuriamo alla corda con un improvvisato imbrago di corda, quanto fosse corretto per fortuna non l’abbiamo mai testato. Con un po’ di peripezie, date più dallo zaino che pareva attirato magneticamente dalla voragine, che altro, afferro la catena e mi tiro di forza ormai privo di ogni stile. Recuperato Marco mi lascio superare sulle roccette, ho decisamente esaurito ogni energia ed anche i pochi metri che ci separano dal riparo paiono non finire mai, Marco mi incoraggia e proseguo. Entrati nella capanna ci accorgiamo non siamo i soli, una guida con cliente siedono e dividono il tavolo con due giovani ragazzi marchigiani. Poco dietro di noi salivano altri due alpinisti e così pochi minuti dopo si riapre la porta ed in men che non si dica, siamo già in otto a sciogliere neve, tagliare pane, formaggio e scambiarci the caldo e racconti.

L’atmosfera è calda e rilassata, le parole girano insieme alle frugali vivande che vengono subito condivise e presto le energie sembrano rimpadronirsi dei nostri corpi.  Si fa acqua velocemente con legna sotto la capiente pentola in dotazione alla capanna che, ora, ci appare come il miglior posto in cui potevamo approdare.  Tra malati della stessa passione occorre poco per far combutta e prima che volga il tramonto siamo tutti affiatati come amici di vecchia conoscenza, strano come i luoghi stretti e l’isolamento possano catalizzare le persone e farle sentire simili anche se così diverse.

Nell’attesa del risotto leggiamo il libro delle ascensioni al bivacco, pochi giorni prima Christophe Profit era salito con cliente e la sua firma stacca in me un senso di orgoglio ma anche di timore, per quello che il giorno dopo ci riserberà.

L’indomani la sveglia suona troppo presto, alle 3.00 la spegniamo svogliatamente e ci scambiamo le impressioni della notte. Io ho dormito poco ma ancora meno Marco che pare anche accusare un senso di nausea. Il morale è basso. Lasciamo andare avanti le altre cordate, sicuramente più veloci, per non avere dietro le spalle il respiro e l’assillo di decisioni e passi non nostri. Ci consultiamo ancora, gli sguardi di una cordata affiatata in certe occasioni, parlano più di cento parole ed in quella era chiaro che non siamo scesi solo perché tutti e due sapevamo che l’occasione era unica, che nessuno dei due era disposto a ripetere quei 2200 infiniti metri di salita.

La luce della frontale illumina le moffole fuori dalla porta del bivacco. Siamo usciti ed il primo, duro passo è stato fatto. Sentiamo il sibilo dell’ora più fredda della giornata che scende dalla grossa spalla nevosa che ripara l’esile costruzione. Subito di leghiamo in cordata, stiamo in conserva corta a non più di dieci metri ma non appena i ramponi mordono la ghiacciata cresta orizzontale, veniamo investiti da raffiche che destabilizzano la postura, quindi dimezziamo i metri che ci separano. Il terreno pare perfetto, le punte mordono e scommetto emettevano quel classico e rassicurante suono tipico della neve ghiacciata trasformata, suono che nessuno di noi udì perché sormontato dal sibilo del vento che non ci abbandonerà più per tutta la salita. Vere e proprie mitragliate d’aria che ci obbligano più di una volta a metterci carponi nell’intento di caricare gli attrezzi con tutto il nostro peso, per non farci prendere il volo. Giunti al colle Signal capiamo che la salita già impegnativa di suo, sarà resa ancora più ingaggiosa dalla precarietà del nostro equilibrio, messo a dura prova dal vuoto della cresta e contemporaneamente dalla pienezza di colonne d’aria che ci investono senza preavviso. Cerchiamo di salire, consci che non appena la pendenza aumenterà dovremo abbracciare il versante sud-est e quindi saremo più riparati da questa gelida Tramontana.

Mi metto in testa nella speranza che tutti quei mesi di studio dell’itinerario ci aiutino nel districarsi da questa immensa e complessa muraglia, che ora appare in tutta la sua potenza.  Affiora dalla neve una costola rocciosa di rosso gneiss, tirandola mi accorgo che segue la mia mano. D’istinto la afferro ed anziché arrestare il suo moto cerco un improbabile disgaggio nei pochi metri che ci separano. L’errore fu fatale per la nostra corda, la caduta di taglio anche se sulla neve ne causa il tranciamento netto di tutti i trefoli tranne uno, che rimane bianco e solitario nel collegare me e Marco.

Lo sconforto è grande ed il troppo freddo ci obbliga a rapide decisioni. Allora non avevo il coltello a portata di imbrago e penso una roccia sia stata usata come accetta per completare il lavoro. Lo spezzone se lo carica Marco nel già pesante zaino, con l’altro decidiamo di proseguire, non ne misuriamo la lunghezza ma a sensazione dovrebbe essere circa la metà, in caso di doppie non dovremmo avere problemi per la progressione … speriamo. Queste rapide decisioni prese senza dibattiti ci fanno intuire che tutti e due sappiamo di aver passato il nostro nuovo “punto di non ritorno”, ora appare più semplice salire che scendere o perlomeno più rapido. La sintonia di intenti ormai raggiunta porta la cordata a scelte rapide ed istintive e soprattutto condivise. Mentre ascendiamo mi rendo sempre più conto di quanto sia importante questo fattore e di quanto la nostra cordata sia cresciuta da quando ci eravamo trovati legati insieme, senza programmarlo, sulla cresta del Cervino.

Qui le difficoltà sono nettamente superiori, il senso di isolamento è interrotto solo a sprazzi dalla visione della capanna Margherita e dei nostri compagni di bivacco, ormai alti e veloci con un passo che non è decisamente il nostro.

Su questa cresta nulla è scontato, neppure seguire la cresta, anzi l’impegno principale diviene proprio l’intuito alpinistico da affinare ad ogni passo: alla ricerca del passaggio migliore, della minore difficoltà o della roccia più sana.  Spesse volte si deve abbandonare il filo preferendo il versante SE e subito dopo il NE, alla spasmodica ricerca di orientarsi tra i due “grandi risalti” come li ha battezzati il Buscaini.

L’assicurazione è quasi sempre aleatoria ma psicologicamente importante. Le difficoltà sono sempre controllabili e non portano mai al limite, ma è chiaro che la scivolata di un componente sarebbe difficilmente arrestabile siccome, più che di cresta, spesso si è in piena parete sovente impiastrata di neve. Dove la roccia verticalizza proviamo anche ad assicurarci a tiri ma il metodo funziona per poco. Siamo consci degli errori commessi nelle nostre precedenti traversate, e qui allentiamo la corda e velocizziamo la progressione a conserva lunga e protetta pure male. A casa, col manuale in mano, sarei il primo a condannarla, ma qui, quando sei annegato in un versante di 3000m di roccia e neve, prevale l’istinto di sopravvivenza sul dottorato di tecnica alpinistica. Capisci e percepisci chiaramente che la sicurezza tua e del tuo compagno, è legata al tempo di esposizione in questi ambienti, procedere in modo lezioso e didattico spezzando il giusto ritmo è un elemento di insicurezza.

Come spieghiamo spesso agli allievi occorre fare proprie le tecniche e creare quegli automatismi per cui non occorre più fermarsi e pensare perché lo si faccia, ma farlo: subito, bene e basta. Malgrado spesso mi metto in cattedra, ora sono io l’alunno. Questa cattedrale di ghiaccio esige il rispetto, l’attenzione e le risposte che un professore si merita. Sai che hai studiato per l’interrogazione, ed anche le domande sono tutte alla tua portata ma, il suo svolgimento è snervante. Il tempo pare dilatato e non ne vedi la fine.

Giunti sotto al grande risalto sommitale ne intuiamo la salita, ma con difficoltà superiori a quanto aspettato e con energie ormai al contagocce. Decidiamo quindi di glissarlo sulla sinistra, in piena parete SE.  In uno scivolo nevoso dalla pendenza costante sui 50°, ne intravediamo una scappatoia. Qua e là affiorano diverse roccette ormai rese roventi dal sole alto e sembrano ottimi punti di assicurazione intermedia per vincere quel traverso infido, su neve resa marcia dall’energico sole di luglio. Peccato che ogni spuntone si paleserà o inaffidabile o completamente spiovente. I friends e nuts escono senza trovare ostacolo alcuno, i cordini finiscono sulla neve e di batter chiodi per ritrovarsi in mano delle briciole di montagna non pare igienico, in quel punto, a quella quota ed a quell’ora.

C’è da fare una cosa sola, anzi due: salire e non cadere.

Svolgiamo le anse e ci allunghiamo ai capi della corda mozza, qualche decina di metri permette di essere in modo alternato sulle difficoltà.

Quando io tiro il fiato, Marco lo trattiene e viceversa.

Questo pendio si rivelerà la parte più snervante della salita. Ogni passo lo scarpone prima affonda fino al ginocchio, ma quando caricato, pare non trovare appoggio sicuro.  Il peso del corpo con lo zaino stivato delle vettovaglie, pentole e gas da bivacco, ora è evidente. La progressione si fa lenta, delicata e poco proficua.

Più che avanzare si annaspa come cani. La piccozza non è di conforto, sprofonda pure lei e non pare a volte tornare alla luce. La necessità aguzza l’ingegno e su due piedi mi invento una “nuova progressione” che consiste nell’affrontare con un pugno sinistro la neve. Le dita distese ed aperte nella moffola ne aumentano la superficie ed usando ora i quattro arti motori riesco ad issarmi su di loro e progredire con una certa continuità, maledettamente lenta ma almeno costante.

Marco fedelmente mi segue, è importante saperlo lì, perché a quel tempo con nessun altro mi sarei sentito altrettanto sicuro. Io dovevo solo procedere, dietro Marco avrebbe fatto tutto nel migliore dei modi e cercato di arrestare una mia caduta, in tutti i modi possibili.

Poter affidare la propria vita ad un compagno di cordata ed a lui giurare lo stesso trattamento, è una delle alchimie magiche dell’Alpinismo, una delle tante per cui vale la pena cimentarsi in questa passione.

Dopo un’ora abbondante su questo terreno vien una gran voglia di ritoccare roccia, per marcia che sia.

E così è quasi un sollievo quando arriviamo al cospetto di una fascia rocciosa rossastra e verticale, la cui salita contraddistingue il meritarsi di nuovo la cresta. Sarà un quarto grado, forse anche meno, ma che fatica ed impegno quei pochi metri con le punte dei ramponi che gracchiano e stridono sul rosso gneiss. In qualche modo, penso molto poco elegante, sono sopra e da qui girandomi per assicurare a spalla Marco mi si apre in tutta la sua bellezza la cresta appena salita ed una goulotte, che a saperlo prima, era forse da preferire.

Non c’è tempo e con corda corta e tirata incito il mio compagno a salire, Marco non si fa pregare.

Ancora pochi metri esposti sul filo ed alle raffiche e si apre la vista del torrione Signalkuppe e dietro si intravede la sagoma della Capanna Margherita, siamo oltre i 4500m e la tensione cala d’un botto e così la fatica esce in modo prepotente, senza preavviso ci sega il fiato.

Sono molte ore che non mangiamo e ci idratiamo, concentrati nello uscire dalle difficoltà, abbiamo ingenuamente pensato di poter salirla tutta senza pause.

Grosso errore.

Gli ultimi metri saranno un calvario, non appena si accelera il passo per giungere alla meta ormai imminente, il respiro viene bloccato da una secca tosse che non lascia scampo. Occorre fermarsi e ripartire, in un continuo intervallarsi che ci fa intuire essere ormai prossimi al fondo del barile.

Prime delle scale della Capanna, abbandoniamo a terra piccozze e corda, osserviamo il vento che ha dilaniato quasi tutto il rosso di una risicata bandiera italiana e sotto quella europea non è messa meglio, avendo perso ben quattro stelle. Riprendiamo su tutto ed entriamo in quello che ora appare come un hotel, ecco dove son finite le quattro stelle!

Ritroviamo gli amici di merenda del bivacco, le facce stanche, cotte dal vento e sole ma soddisfatte. Se loro appaiono così, chissà i nostri volti come saranno, meglio non aver specchi nelle vicinanze.

Al tavolo ci ricompattiamo, Marco si accascia sul piano ed io non lo seguo solo perché è finito lo spazio. I due ragazzi marchigiani parlano già di N dei Lyskamm il giorno seguente, a me arrivare alle funivie pare già un miraggio.

Il pomeriggio scorre tranquillo, ogni piano di scale interne è una piccola cima da raggiungere o discendere e quindi si ottimizzano i giri, saltandone anche alcuno senza patemi di sorta o rimpianti. E’ così che non mi ricordo neppure se prima della cena siamo andati in camerata od ai servizi. Poco importa.

Siamo qui, il tramonto sta esplodendo e la visione del Cervino e Lyskamm dai piccoli vetri che vibrano al vento, è una immagine che mi porterò dentro a vita.

La notte scorre travagliata, la quota batte sulle tempie e la sensazione è quella di essere in piena influenza invernale. Le energie non vengono recuperate, le dita dei piedi rimangono fredde, pure un’unghia pare aver virato di colore. Altro che Dufour, l’indomani sarà già un successo tornare a valle sulle proprie gambe.
Di comune accordo ci dichiariamo completamente soddisfatti, con ammirazione ma senza invidia lasciamo partire i giovani ragazzi marchigiani, che in una settimana han racimolato su il bottino di tre anni di un comune alpinista come il sottoscritto: Kuffner al Bianco, Signal e N del Lyskamm. Chapeau.
Scendiamo sui pianori ghiacciati della normale alla punta Gnifetti, che ora ci appaiono come una comoda e sicura autostrada verso le funivie. In breve al perdere della quota ci sentiamo subito meglio, eravamo decisamente in pieno AMS o mal di montagna che dir si voglia, e quindi presto il passo si fa più deciso e svelto ed in breve tempo arriviamo alla capanna Gnifetti, giusto in tempo per notare le ultime cordate svogliate e ritardatarie che partono, in modo raffazzonato verso il nostro ricovero notturno, appena lasciato.
A quel tempo la funivia era solo da passo dei Salati e quindi la risalita allo Stolemberg donava agli alpinisti l’ultimo strappo finale noioso ma spossante.
Tornati ad Alagna i piedi si scaldano sull’asfalto, l’unghia scura è in buona compagnia di altre, la corda mozza ha fatto il suo dovere e le braccia mie e di Marco si cercano per scambiarsi un segno di riconoscenza della magnifica esperienza insieme.
Lo sguardo sale appena oltre il campanile cittadino, ed ora sappiamo bene perché ci dicevano che:

“La Signal inizia da Alagna !“

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Alpi Centrali Alpi Occidentali Alta Quota monte Rosa relazioni

cresta Signal

Punta Gnifetti 4554m

Una cresta dal sapore himalayano nelle Alpi.

Andar per creste di alta quota svelate dai nostri impareggiabili bisnonni, verso la fine del diciannovesimo secolo, penso sia una attività sublime. Sicuramente è l’Alpinismo che più amo, che più sento vicino al mio canone estetico di andare per montagne. Certe salite vanno gustate e pregustate con i tuoi compagni di scalata, con mesi di anticipo e questa è stata una di quelle. Dopo l’ebbrezza della Biancograt, già dopo pochi giorni, la mente era alla ricerca di un’altra salita di ampio respiro, a cavallo del vuoto ed immersi nel cielo.

Forti e rassicurati dalla esperienza formativa che è stata quella magnifica cresta sul Bernina, spingiamo l’asticella ancora un po’ più su. Marco si lascia convincere senza difficoltà, troviamo piena comunione di intenti e so che la diatriba sarà solo eventualmente nell’approccio e logistica, ma anche in quello ci troviamo subito d’accordo.

Quattro giorni sembrano il periodo minimo per affrontare la salita con acclimatamento e senza “strappi al motore”, l’appetito vien mangiando e dopo la cresta Signal stiamo sognando di dormire al rifugio Margherita ed il giorno seguente affrontare pure la salita della Dufour per la normale. I dislivelli paiono già sulla carta importanti ma la bonarietà del versante occidentale e una sovrastima delle nostre capacità, ci portano a pensare come un obbiettivo alla portata di mano, anzi un peccato non realizzare l’en plein di 3 quattromila di cui due nuovi per noi.

In un caldo pomeriggio di luglio l’auto è stivata, i nostri zaini abbassano le sospensioni ed immaginarli sulle spalle per tutte quelle ore, dimezza già il fiato. Il primo giorno pernotteremo al B&B 10 e lode che per 30€ a testa ci permetterà un certo lusso prima dei bivacchi previsti. La struttura è ricavata in una ex scuola elementare, qua e là qualche tavolo, lavagna e libro. Marco si sente a suo agio, quasi al lavoro direi, come un insegnate senza allievi che frequenta la scuola in periodo estivo.  Anche io ne conservo un ottimo ricordo e non possiamo che consigliarlo.

L’indomani si parcheggia ad Alagna Valsesia e qui lo spettacolo si apre in tutta la sua potenza. Le tipiche costruzioni Walser e la serenità della cittadina poco hanno da spartire con la visione del versante E del Monte Rosa, che è qualcosa di impressionante. Vera cattedrale di ghiaccio oppone allo sguardo una barriera che nelle dimensioni ricorda più un Himalaya che non le Alpi. Le pendenze non sono quelle del Bianco, mancano le guglie ed i pinnacoli granitici appuntiti e la struggente complessità del gigante ma qui siamo di fronte a quasi 3000m di parete che dai verdi prati erodono a rosso gneiss fino a lucente ghiaccio che buca le nubi.

La parete è immensa, le distanze pure, ma le pendenze non sembrano schiacciare chi vi si avventura. Iniziamo a camminare. Subito le cascate dell’Acqua Bianca rinfrescano la calda giornata, decidiamo di darci un limite massimo di ascesa: mai più di 300m/h pena esaurire le energie su quei 2200m che ci aspettano fino alla capanna Resegotti. Malgrado lo zaino prossimo ai venti chili e le imposizioni mentali sarà difficile mantenere quel lento passo, 7 ore di avvicinamento sembrano troppe ma non appena superiamo il rifugio Barba Ferriero capiamo siamo stati lungimiranti. Le tracce spariscono, il sentiero accennato perde visibilità, alcune nubi basse ci fanno abbandonare più volte la retta via. Leggiamo la cartina ripetutamente e cerchiamo di emulare ora, su questi pianori rocciosi, la traccia studiata meticolosamente a casa ormai da settimane. Intravediamo la cresta e le propaggini seraccate del ghiacciaio che scende dalla punta Gnifetti, ma di bivacco Resegotti neanche l’ombra. Prendiamo quota lentamente e confideremo che quando l’altimetro segnerà solo un centinaia di metri alla capanna, questa ci apparirà in tutta la sua accoglienza. Ormai sul ghiacciaio delle Locce la neve bagnata e pesante di un caldo luglio lambisce i nostri scarponi. Decidiamo di non indossare i ramponi solo perché sappiamo che le ultime difficoltà saranno un breve tratto ferrato su roccette.  Eccolo, come miraggio nel deserto appare una costruzione nera, simile ad un nido d’aquila si staglia nel cielo, appoggiato sulla cresta, magnifico ma improbabile nella sua statica posizione.

Intravediamo anche il luccichio delle maglie metalliche e degli spit che con movimento ascendente verso destra segnano la direzione di salita fino al nostro ricovero notturno. Sono passate 7 ore da quando abbiamo indossato gli zaini ed ora il loro peso pare moltiplicato sulle nostre spalle.  L’ultimo tratto ripido è la cosiddetta prova di forza, siamo già esausti ma intuiamo che quello sarà il punto di non ritorno. Se arriviamo al bivacco il ricordo vivo dello sforzo necessario per raggiungerlo ci motiverà per la salita dell’indomani.

Tiriamo fuori la corda, una piccola crepaccia terminale si oppone tra noi e l’inizio del tratto metallico. Gli imbraghi sono sul fondo dello zaino, o forse sono sopra, ma nessuno dei due ha la forza e coraggio per toglierselo. Decidiamo in una sicura a spalla e ci assicuriamo alla corda con un improvvisato imbrago di corda, quanto fosse corretto per fortuna non l’abbiamo mai testato. Con un po’ di peripezie, date più dallo zaino che pareva attirato magneticamente dalla voragine, che altro, afferro la catena e mi tiro di forza ormai privo di ogni stile. Recuperato Marco mi lascio superare sulle roccette, ho decisamente esaurito ogni energia ed anche i pochi metri che ci separano dal riparo paiono non finire mai, Marco mi incoraggia e proseguo. Entrati nella capanna ci accorgiamo non siamo i soli, una guida con cliente siedono e dividono il tavolo con due giovani ragazzi marchigiani. Poco dietro di noi salivano altri due alpinisti e così pochi minuti dopo si riapre la porta ed in men che non si dica, siamo già in otto a sciogliere neve, tagliare pane, formaggio e scambiarci the caldo e racconti.

L’atmosfera è calda e rilassata, le parole girano insieme alle frugali vivande che vengono subito condivise e presto le energie sembrano rimpadronirsi dei nostri corpi.  Si fa acqua velocemente con legna sotto la capiente pentola in dotazione alla capanna che, ora, ci appare come il miglior posto in cui potevamo approdare.  Tra malati della stessa passione occorre poco per far combutta e prima che volga il tramonto siamo tutti affiatati come amici di vecchia conoscenza, strano come i luoghi stretti e l’isolamento possano catalizzare le persone e farle sentire simili anche se così diverse.

Nell’attesa del risotto leggiamo il libro delle ascensioni al bivacco, pochi giorni prima Christophe Profit era salito con cliente e la sua firma stacca in me un senso di orgoglio ma anche di timore, per quello che il giorno dopo ci riserberà.

L’indomani la sveglia suona troppo presto, alle 3.00 la spegniamo svogliatamente e ci scambiamo le impressioni della notte. Io ho dormito poco ma ancora meno Marco che pare anche accusare un senso di nausea. Il morale è basso. Lasciamo andare avanti le altre cordate, sicuramente più veloci, per non avere dietro le spalle il respiro e l’assillo di decisioni e passi non nostri. Ci consultiamo ancora, gli sguardi di una cordata affiatata in certe occasioni, parlano più di cento parole ed in quella era chiaro che non siamo scesi solo perché tutti e due sapevamo che l’occasione era unica, che nessuno dei due era disposto a ripetere quei 2200 infiniti metri di salita.

La luce della frontale illumina le moffole fuori dalla porta del bivacco. Siamo usciti ed il primo, duro passo è stato fatto. Sentiamo il sibilo dell’ora più fredda della giornata che scende dalla grossa spalla nevosa che ripara l’esile costruzione. Subito di leghiamo in cordata, stiamo in conserva corta a non più di dieci metri ma non appena i ramponi mordono la ghiacciata cresta orizzontale, veniamo investiti da raffiche che destabilizzano la postura, quindi dimezziamo i metri che ci separano. Il terreno pare perfetto, le punte mordono e scommetto emettevano quel classico e rassicurante suono tipico della neve ghiacciata trasformata, suono che nessuno di noi udì perché sormontato dal sibilo del vento che non ci abbandonerà più per tutta la salita. Vere e proprie mitragliate d’aria che ci obbligano più di una volta a metterci carponi nell’intento di caricare gli attrezzi con tutto il nostro peso, per non farci prendere il volo. Giunti al colle Signal capiamo che la salita già impegnativa di suo, sarà resa ancora più ingaggiosa dalla precarietà del nostro equilibrio, messo a dura prova dal vuoto della cresta e contemporaneamente dalla pienezza di colonne d’aria che ci investono senza preavviso. Cerchiamo di salire, consci che non appena la pendenza aumenterà dovremo abbracciare il versante sud-est e quindi saremo più riparati da questa gelida Tramontana.

Mi metto in testa nella speranza che tutti quei mesi di studio dell’itinerario ci aiutino nel districarsi da questa immensa e complessa muraglia, che ora appare in tutta la sua potenza.  Affiora dalla neve una costola rocciosa di rosso gneiss, tirandola mi accorgo che segue la mia mano. D’istinto la afferro ed anziché arrestare il suo moto cerco un improbabile disgaggio nei pochi metri che ci separano. L’errore fu fatale per la nostra corda, la caduta di taglio anche se sulla neve ne causa il tranciamento netto di tutti i trefoli tranne uno, che rimane bianco e solitario nel collegare me e Marco.

Lo sconforto è grande ed il troppo freddo ci obbliga a rapide decisioni. Allora non avevo il coltello a portata di imbrago e penso una roccia sia stata usata come accetta per completare il lavoro. Lo spezzone se lo carica Marco nel già pesante zaino, con l’altro decidiamo di proseguire, non ne misuriamo la lunghezza ma a sensazione dovrebbe essere circa la metà, in caso di doppie non dovremmo avere problemi per la progressione … speriamo. Queste rapide decisioni prese senza dibattiti ci fanno intuire che tutti e due sappiamo di aver passato il nostro nuovo “punto di non ritorno”, ora appare più semplice salire che scendere o perlomeno più rapido. La sintonia di intenti ormai raggiunta porta la cordata a scelte rapide ed istintive e soprattutto condivise. Mentre ascendiamo mi rendo sempre più conto di quanto sia importante questo fattore e di quanto la nostra cordata sia cresciuta da quando ci eravamo trovati legati insieme, senza programmarlo, sulla cresta del Cervino.

Qui le difficoltà sono nettamente superiori, il senso di isolamento è interrotto solo a sprazzi dalla visione della capanna Margherita e dei nostri compagni di bivacco, ormai alti e veloci con un passo che non è decisamente il nostro.

Su questa cresta nulla è scontato, neppure seguire la cresta, anzi l’impegno principale diviene proprio l’intuito alpinistico da affinare ad ogni passo: alla ricerca del passaggio migliore, della minore difficoltà o della roccia più sana.  Spesse volte si deve abbandonare il filo preferendo il versante SE e subito dopo il NE, alla spasmodica ricerca di orientarsi tra i due “grandi risalti” come li ha battezzati il Buscaini.

L’assicurazione è quasi sempre aleatoria ma psicologicamente importante. Le difficoltà sono sempre controllabili e non portano mai al limite, ma è chiaro che la scivolata di un componente sarebbe difficilmente arrestabile siccome, più che di cresta, spesso si è in piena parete sovente impiastrata di neve. Dove la roccia verticalizza proviamo anche ad assicurarci a tiri ma il metodo funziona per poco. Siamo consci degli errori commessi nelle nostre precedenti traversate, e qui allentiamo la corda e velocizziamo la progressione a conserva lunga e protetta pure male. A casa, col manuale in mano, sarei il primo a condannarla, ma qui, quando sei annegato in un versante di 3000m di roccia e neve, prevale l’istinto di sopravvivenza sul dottorato di tecnica alpinistica. Capisci e percepisci chiaramente che la sicurezza tua e del tuo compagno, è legata al tempo di esposizione in questi ambienti, procedere in modo lezioso e didattico spezzando il giusto ritmo è un elemento di insicurezza.

Come spieghiamo spesso agli allievi occorre fare proprie le tecniche e creare quegli automatismi per cui non occorre più fermarsi e pensare perché lo si faccia, ma farlo: subito, bene e basta. Malgrado spesso mi metto in cattedra, ora sono io l’alunno. Questa cattedrale di ghiaccio esige il rispetto, l’attenzione e le risposte che un professore si merita. Sai che hai studiato per l’interrogazione, ed anche le domande sono tutte alla tua portata ma, il suo svolgimento è snervante. Il tempo pare dilatato e non ne vedi la fine.

Giunti sotto al grande risalto sommitale ne intuiamo la salita, ma con difficoltà superiori a quanto aspettato e con energie ormai al contagocce. Decidiamo quindi di glissarlo sulla sinistra, in piena parete SE.  In uno scivolo nevoso dalla pendenza costante sui 50°, ne intravediamo una scappatoia. Qua e là affiorano diverse roccette ormai rese roventi dal sole alto e sembrano ottimi punti di assicurazione intermedia per vincere quel traverso infido, su neve resa marcia dall’energico sole di luglio. Peccato che ogni spuntone si paleserà o inaffidabile o completamente spiovente. I friends e nuts escono senza trovare ostacolo alcuno, i cordini finiscono sulla neve e di batter chiodi per ritrovarsi in mano delle briciole di montagna non pare igienico, in quel punto, a quella quota ed a quell’ora.

C’è da fare una cosa sola, anzi due: salire e non cadere.

Svolgiamo le anse e ci allunghiamo ai capi della corda mozza, qualche decina di metri permette di essere in modo alternato sulle difficoltà.

Quando io tiro il fiato, Marco lo trattiene e viceversa.

Questo pendio si rivelerà la parte più snervante della salita. Ogni passo lo scarpone prima affonda fino al ginocchio, ma quando caricato, pare non trovare appoggio sicuro.  Il peso del corpo con lo zaino stivato delle vettovaglie, pentole e gas da bivacco, ora è evidente. La progressione si fa lenta, delicata e poco proficua.

Più che avanzare si annaspa come cani. La piccozza non è di conforto, sprofonda pure lei e non pare a volte tornare alla luce. La necessità aguzza l’ingegno e su due piedi mi invento una “nuova progressione” che consiste nell’affrontare con un pugno sinistro la neve. Le dita distese ed aperte nella moffola ne aumentano la superficie ed usando ora i quattro arti motori riesco ad issarmi su di loro e progredire con una certa continuità, maledettamente lenta ma almeno costante.

Marco fedelmente mi segue, è importante saperlo lì, perché a quel tempo con nessun altro mi sarei sentito altrettanto sicuro. Io dovevo solo procedere, dietro Marco avrebbe fatto tutto nel migliore dei modi e cercato di arrestare una mia caduta, in tutti i modi possibili.

Poter affidare la propria vita ad un compagno di cordata ed a lui giurare lo stesso trattamento, è una delle alchimie magiche dell’Alpinismo, una delle tante per cui vale la pena cimentarsi in questa passione.

Dopo un’ora abbondante su questo terreno vien una gran voglia di ritoccare roccia, per marcia che sia.

E così è quasi un sollievo quando arriviamo al cospetto di una fascia rocciosa rossastra e verticale, la cui salita contraddistingue il meritarsi di nuovo la cresta. Sarà un quarto grado, forse anche meno, ma che fatica ed impegno quei pochi metri con le punte dei ramponi che gracchiano e stridono sul rosso gneiss. In qualche modo, penso molto poco elegante, sono sopra e da qui girandomi per assicurare a spalla Marco mi si apre in tutta la sua bellezza la cresta appena salita ed una goulotte, che a saperlo prima, era forse da preferire.

Non c’è tempo e con corda corta e tirata incito il mio compagno a salire, Marco non si fa pregare.

Ancora pochi metri esposti sul filo ed alle raffiche e si apre la vista del torrione Signalkuppe e dietro si intravede la sagoma della Capanna Margherita, siamo oltre i 4500m e la tensione cala d’un botto e così la fatica esce in modo prepotente, senza preavviso ci sega il fiato.

Sono molte ore che non mangiamo e ci idratiamo, concentrati nello uscire dalle difficoltà, abbiamo ingenuamente pensato di poter salirla tutta senza pause.

Grosso errore.

Gli ultimi metri saranno un calvario, non appena si accelera il passo per giungere alla meta ormai imminente, il respiro viene bloccato da una secca tosse che non lascia scampo. Occorre fermarsi e ripartire, in un continuo intervallarsi che ci fa intuire essere ormai prossimi al fondo del barile.

Prime delle scale della Capanna, abbandoniamo a terra piccozze e corda, osserviamo il vento che ha dilaniato quasi tutto il rosso di una risicata bandiera italiana e sotto quella europea non è messa meglio, avendo perso ben quattro stelle. Riprendiamo su tutto ed entriamo in quello che ora appare come un hotel, ecco dove son finite le quattro stelle!

Ritroviamo gli amici di merenda del bivacco, le facce stanche, cotte dal vento e sole ma soddisfatte. Se loro appaiono così, chissà i nostri volti come saranno, meglio non aver specchi nelle vicinanze.

Al tavolo ci ricompattiamo, Marco si accascia sul piano ed io non lo seguo solo perché è finito lo spazio. I due ragazzi marchigiani parlano già di N dei Lyskamm il giorno seguente, a me arrivare alle funivie pare già un miraggio.

Il pomeriggio scorre tranquillo, ogni piano di scale interne è una piccola cima da raggiungere o discendere e quindi si ottimizzano i giri, saltandone anche alcuno senza patemi di sorta o rimpianti. E’ così che non mi ricordo neppure se prima della cena siamo andati in camerata od ai servizi. Poco importa.

Siamo qui, il tramonto sta esplodendo e la visione del Cervino e Lyskamm dai piccoli vetri che vibrano al vento, è una immagine che mi porterò dentro a vita.

La notte scorre travagliata, la quota batte sulle tempie e la sensazione è quella di essere in piena influenza invernale. Le energie non vengono recuperate, le dita dei piedi rimangono fredde, pure un’unghia pare aver virato di colore. Altro che Dufour, l’indomani sarà già un successo tornare a valle sulle proprie gambe.

Di comune accordo ci dichiariamo completamente soddisfatti, con ammirazione ma senza invidia lasciamo partire i giovani ragazzi marchigiani, che in una settimana han racimolato su il bottino di tre anni di un comune alpinista come il sottoscritto: Kuffner al Bianco, Signal e N del Lyskamm. Chapeau.

Scendiamo sui pianori ghiacciati della normale alla punta Gnifetti, che ora ci appaiono come una comoda e sicura autostrada verso le funivie. In breve al perdere della quota ci sentiamo subito meglio, eravamo decisamente in pieno AMS o mal di montagna che dir si voglia, e quindi presto il passo si fa più deciso e svelto ed in breve tempo arriviamo alla capanna Gnifetti, giusto in tempo per notare le ultime cordate svogliate e ritardatarie che partono, in modo raffazzonato verso il nostro ricovero notturno, appena lasciato.

A quel tempo la funivia era solo da passo dei Salati e quindi la risalita allo Stolemberg donava agli alpinisti l’ultimo strappo finale noioso ma spossante.

Tornati ad Alagna i piedi si scaldano sull’asfalto, l’unghia scura è in buona compagnia di altre, la corda mozza ha fatto il suo dovere e le braccia mie e di Marco si cercano per scambiarsi un segno di riconoscenza della magnifica esperienza insieme.

Lo sguardo sale appena oltre il campanile cittadino, ed ora sappiamo bene perché ci dicevano che:

“La Signal inizia da Alagna !“


Prima salita:

A. Supersaxo e H.W. Topham ed un portatore 28 luglio 1887.


Descrizione tecnica:

Relazione di salita 20-22 luglio 2008

Difficoltà :D, passi di III e IV, canali nevosi sui 50°-55°
Impegno :IV
Tipologia itinerario :via in alta quota, non sempre evidente ma anzi da cercare con intuito Alpinistico, la presenza di un rifugio alla partenza ed uno all’arrivo non deve farla sottostimare. Protezioni aleatorie o di difficile piazzamento.
Relazione :ottima la TCI, Buscaini (vedi sotto)
Dislivelli :+2200m circa fino a Capanna Resegotti 3624m, +930m cresta vera e propria, – 1800m circa per tornare impianti.
Punto partenza : Cascate Acqua Bianca 1190m. Alagna Valsesia (VC), Piemonte, Italy.
Punto arrivo massima elevazione:Punta Gnifetti, 4554m
Materiale:NDA, 1 piccozza classica, ramponi da misto, 2 friends 0.5 ed 1, qualche nuts, 1 mezza corda 60m doppiata.
Consigli:Solo in cordate affiatate.

 

Ad inizio stagione quando la neve e ghiaccio consentono la progressione con ramponi per tutto l’itinerario.

La Resegotti è dotata di stufa (portarsi legna) e pentolame, evitate di portarle su come invece abbiamo erroneamente fatto noi. Si può fare acqua a pochi passi dalla capanna ponendo attenzione alle numerose deiezioni.

TCI Buscaini
Traccia cresta Signal

Dislivelli/sviluppo:

+2240m circa fino a Capanna Resegotti 3624m / 

+930m cresta vera e propria / 1300m

– 1800m circa per tornare impianti /


Punti di appoggio:

Bivacco Resegotti
Capanna Margherita
Capanna Gnifetti

Cartina con tracciati:

TCI Monte Rosa, Buscaini


Foto del tracciato:

tracciato dei 3 giorni su foto © monterosa-ski
Tracciato Signal da Alagna
Tracciato Signal da Traversata dei Camosci
Tracciato Signal dalla Capanna Margherita

GPS :


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Routes of the sky – Vie del cielo from nikobeta on Vimeo.

Quando ti trovi solo con il tuo compagno di cordata che ricalca le tue orme, su una neve ghiacciata dall’alba del primo mattino, sei in bilico su una lama che taglia il concetto di orizzonte, intorno a te solo il vuoto, eppure capisci che poche altre volte nella tua vita sei stato così pieno. Se quello è, ora, il solo posto in cui vorresti essere: La Via del Cielo ha preso anche te.
Ed allora ecco che a pochi chilometri da casa si possono ancora intraprendere veri e propri viaggi, isolati come in mezzo al deserto del Gobi, immersi in una natura lussureggiante come quella del Borneo, in ascetica introspezione ed ascolto di se stessi e dei propri limiti come in un monastero tibetano. Questi luoghi sono le nostre Alpi. Anche se ogni versante ormai è martoriato da impianti e turisti della neve, è ancora possibile addentrarsi in luoghi dove la natura è la sola a dettare legge.
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When you’re alone with your climbing partner who follows in your footsteps on a frozen snow dawn of early morning, you’re poised on a knife that cuts the concept of horizon, only emptiness around you, yet you know that few other times in your life you have been so full. If what is now the only place where you want to be: The Ways of the Sky took you too.
And then behold a few miles from home can still take the actual travel, as isolated in the middle of the Gobi desert, immersed in lush nature such as Borneo, in ascetic introspection and listening to themselves and their limits as in a Tibetan monastery. These places are our Alps Although each side now is battered by snow and leisure facilities, you can still go into places where nature is the only one to dictate.


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